#64 joseph campbell

Oggi faccio un po’ l’intellettuale. Ho addirittura letto un libro. Ci ho trovato delle idee interessanti, che cercherò di riassumere qui. Sarà un post lungo e noioso.
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Joseph Campbell (1904-1987) è stato uno studioso americano che si è occupato soprattutto di mitologia e religione comparata.
Nato in una famiglia cattolica irlandese, da bambino si è appassionato alla cultura dei Nativi Americani. Secondo la postfazione del libro che ho appena letto, al college “mentre si specializzava in letteratura medievale, suonava jazz in una band e diventò un podista di spicco”. E ha studiato russo per leggere Guerra e pace in lingua originale. Cioè, capito che tipo è? In più, George Lucas si è ispirato ai suoi libri per la saga di Star Wars (davvero! Lo dice anche Wikipedia).

Campbell ha teorizzato che “tutti i miti sono produzioni creative della psiche umana, che gli artisti sono i mitopoieti della civiltà e che i miti sono manifestazioni creative del bisogno universale dell’umanità di spiegare la realtà psicologica, sociale, cosmologica e spirituale”.
È stato molto influenzato da Thomas Mann e James Joyce: “È per noi più probabile trovare somiglianze con le esperienze di Stephen Dedalus e di Hans Castorp che con quella di san Paolo. San Paolo fece questo e quest’altro, ma in una terra remota e millenni fa. Oggi non andiamo più a cavallo e non portiamo più i sandali”. Al contrario, le esperienze di Stephen Dedalus e di Hans Castorp “riguardano conflitti e problemi che noi viviamo”, di conseguenza possiamo riconoscerci in loro e anche vederli come modelli. Infatti “i miti di una certa società offrono effettivamente modelli di ruolo per quella data società in quella data epoca”.

Campbell ha individuato quattro funzioni principali della mitologia. La prima, consiste nel conciliare la coscienza con la propria esistenza, con la natura della vita. Non solo: “conciliare con gratitudine, amore e senso di dolcezza”. La vita può essere terribile, ma l’individuo deve accettare di viverla così com’è, e inoltre all’interno del proprio gruppo sociale, di cui deve accettare tradizioni e regole. Una mitologia fornisce un senso alla vita, per renderla vivibile: “Un ordine mitologico è un sistema di immagini che rende cosciente un certo significato dell’esistenza, che – miei cari – non ne ha, perché semplicemente è. Ma la mente va in cerca di un significato. Non può giocare, se non conosce (o non inventa) qualche sistema di regole”.

La seconda funzione è detta cosmologica e consiste nel presentare un’immagine del mondo e dell’universo circostante. “Un’immagine cosmologica offre un campo in cui giocare il gioco che contribuisce a conciliarci con la nostra vita, con la nostra esistenza, con la nostra stessa coscienza, con le nostre aspettative di senso”. Deve darci una spiegazione di tutto ciò con cui entriamo in contatto, e alimentare in noi un sentimento di rispetto e soggezione.
Il sistema cosmologico deve essere sensato, ma non è una questione di verità: l’importante è che sia credibile. Per questo oggi la tradizione biblica ha qualche problema: “Ogni affermazione cosmologica della Bibbia è stata confutata” (la Chiesa ci ha provato a bruciare sul rogo quelli che contestavano, e per un po’ ha funzionato, ma non poteva continuare per sempre). Campbell aggiunge: “Onestamente, nessuno può più dire di credere a queste cose; finge: «Sì, va tutto bene; a me piace essere cristiano». Va bene, a me piace giocare a tennis”.
Attualmente la situazione è più incasinata e instabile: “La nostra cosmologia è nelle mani della scienza. La prima legge della scienza è che la verità non è stata trovata. Le leggi della scienza sono ipotesi di lavoro. Lo scienziato sa che in ogni momento si possono trovare dei fatti che rendono obsoleta la teoria attuale. Succede continuamente. È buffo.” La vita di oggi, in generale, cambia troppo rapidamente: “Oggi manca la stasi necessaria a formare una tradizione mitologica”.
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“La terza funzione di un ordine mitologico è convalidare e sostenere un certo sistema sociale”, cioè un insieme condiviso di regole, comportamenti, usanze, da cui dipende l’esistenza di un gruppo sociale.
L’idea è che la struttura e l’ordine sociale siano della stessa natura dell’ordine cosmologico, perciò “ugualmente valide ed ugualmente indiscutibili”. La divinità che ha creato il cosmo, regolato dalle sue leggi, è la stessa divinità che ha stabilito le norme sociali e morali: dunque non si possono negare, né cambiare, né possiamo opporci, come non possiamo avere alcuna influenza sul sorgere del sole.
Da tempi antichissimi l’essere umano ha capito che il cosmo è ordinato: il sole, le stelle, i pianeti, si muovono seguendo un disegno preciso, matematico. Secondo moltissime culture l’ordine sociale è parte dell’ordine naturale delle cose, e ogni individuo deve assumere il suo ruolo all’interno del sistema. Un esempio è il rigido sistema delle caste in India, che si crede rispecchi l’ordine dell’universo, chiamato “dharma” in sanscrito (sì, come il progetto Dharma di Lost).
Noi oggi non siamo tanto disposti a far coincidere le leggi di Dio con le leggi della società e della nazione, anche se tuttora ogni tanto qualcuno vorrebbe abolire il diritto all’aborto o al divorzio, ad esempio.
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“Infine, la quarta funzione della mitologia è psicologica. Il mito deve trasportare l’individuo attraverso le fasi della vita, dalla nascita alla maturità e attraverso la senilità fino alla morte. La mitologia deve farlo in accordo con l’ordine sociale del gruppo, poiché il cosmo e l’enorme mistero della vita sono così come li intende il gruppo”.
Una mitologia aiuta l’individuo a vivere la crescita e i cambiamenti, in particolare la transizione dall’infanzia all’età adulta, cioè il passaggio dalla condizione di dipendenza a quella di responsabilità; e poi ad accettare l’avanzare dell’età, la perdita delle forze, e la transizione inversa dalla responsabilità alla dipendenza, fino all’accettazione della prospettiva della morte.
Campbell scrive: “Tutti noi seguiamo un percorso molto simile in termini di sviluppo psicologico dalla culla alla tomba”.
Il mito, quindi, aiuta nella transizione. Questo è particolarmente evidente nei riti di iniziazione (il rituale funge da rappresentazione drammatica, visiva, attiva e partecipativa di un mito). Nella nostra società c’è tutta una serie di esperienze che accompagnano i cambiamenti, ma non ci sono veri e propri rituali di passaggio. È tutto più un casino. Avete presente le bimbe delle elementari che ballano e si vestono come fossero in un video di Britney Spears? E i sessantenni immaturi come adolescenti? Ecco, appunto.
Campbell scrive che oggi rimangono solo residui di vecchi miti, in cui non è facile identificarsi, ma possiamo rivolgerci all’arte: “Gli artisti sono aiutanti magici. Evocando simboli e temi che ci riportano al nostro Sé più profondo, possono aiutarci nel viaggio eroico della nostra vita”.

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Per certi aspetti il lavoro di Campbell è molto vicino a quello di Carl Gustav Jung. Studiando mitologia comparata e storia delle religioni, Jung trovò parallelismi precisi tra l’immaginario dei suoi pazienti e i temi mitologici. Espose questi suoi studi in Simboli della trasformazione, pubblicato nel 1912. Soprattutto, ampliava “la ricerca analitica dalla storia del singolo alla storia della collettività umana” e, oltre all’inconscio individuale, parlava di un inconscio collettivo: un “contenitore psichico universale”, ovvero la parte dell’inconscio che è comune in tutti gli esseri umani. Così per Jung diventò impossibile collaborare ancora con Freud, che era troppo fissato col sesso e riusciva solo a vedere simboli fallici dappertutto.
Per Jung, la psiche di ogni essere umano è organizzata nello stesso modo: queste strutture fisse sono gli archetipi dell’inconscio collettivo. Jung li chiama persona, ombra, animus o anima, e . Questi archetipi emergono personificati nei miti e nei sogni. Per questo le mitologie di tutto il mondo presentano motivi ricorrenti, simboli universali.
Ci sono infatti immagini mitologiche che si trovano in tutti i miti del mondo. Sono temi universali, anche se con declinazioni storiche diverse.
Campbell è convinto che i miti provengano dalla psiche e parlino alla psiche: il riferimento dei simboli mitologici è la psicologia, qualcosa che è in noi stessi. Non un evento storico, accaduto nel tempo. Secondo lui, le attuali religioni dell’Occidente hanno insistito troppo sulla storicità concreta dei loro simboli (la nascita dalla Vergine, la Resurrezione, l’ascensione, ecc.). Finché è sorto qualche dubbio sulla verità storica di questi miti fondanti. Ma se si comincia a dubitare della base del mito, “la fede si guasta” e anche il simbolo viene rigettato: “Questo non può essere successo, quindi sbarazziamoci dei miti”. E così i miti smettono di svolgere quelle che per Campbell sono fondamentali funzioni per la vita umana, in particolare quella psicologica/spirituale.

Un discorso interessante è quello delle mitologie “paideumatiche”. “Paideumatico” è il termine coniato da Leo Frobenius, etnologo tedesco, “per descrivere la tendenza di una civiltà a conformarsi al proprio ambiente fisico: clima, suolo, geografia”.
Si possono individuare due principali visioni del mondo contrapposte.
Popoli primitivi che abitavano terre fredde e settentrionali, oppure calde e desertiche, erano costretti dal contesto a una sussistenza basata sulla caccia. All’interno di un popolo cacciatore, sono gli uomini a portare il cibo, e quindi a nutrire il gruppo. L’ideale di uomo corrisponde al bravo cacciatore, forte e coraggioso. Anche bravo combattente, perché questi popoli vivono costanti conflitti con altri gruppi cacciatori vicini.
Un popolo guerriero e cacciatore ha, al centro della propria mitologia, una divinità maschile, che personifica la forza e il coraggio.
Si sviluppa una “civiltà patriarcale, meno raffinata ma fisicamente più potente”, per questo destinata al predominio su popoli agricoltori, i quali però presentano in genere una cultura più sofisticata, che viene spesso assimilata dai popoli dominanti.
Inoltre, questa è una civiltà che “vive sulla morte”, e cioè sopravvive grazie alla continua uccisione di animali. Per accettare questa realtà, si sviluppa tipicamente una mitologia in cui l’animale viene visto come vittima volontaria, che si offre, si sacrifica, dopo aver stipulato una sorta di patto con il cacciatore, il quale si impegna a celebrare un apposito rituale che, secondo le loro credenze, servirà a “ridare la vita” all’animale. Il rituale può consistere ad esempio nel restituire il sangue dell’animale alla terra.
Ad esempio, gli ebrei erano un popolo di cacciatori e pastori, e il rituale Kosher della macellazione degli animali permessi, cioè la cosiddetta Shechitah, prevede l’uccisione dell’animale con un solo taglio alla gola, in modo da provocarne la morte immediata e il completo dissanguamento. È vietatissimo consumare il sangue, perché si crede che contenga la vitalità dell’animale. Se ho ben capito, il sangue viene fatto assorbire dalla terra.
Il Dio dell’Antico Testamento è un maschio, e neanche tanto gentile, proprio perché si tratta della mitologia di un popolo cacciatore, che vive in terre aride. In un contesto simile, le donne non hanno un ruolo decisivo, e neanche alla “Madre Terra” viene riconosciuta una grande importanza: “Prendiamo il Genesi. Chi ha mai sentito di un uomo che partorisce una donna? Eppure, troviamo questa sciocchezza nel giardino dell’Eden, dove Adamo partorisce Eva. Il maschio si appropria di un ruolo femminile. In ebraico “adam” significa “terra”. Così il genere umano nacque dalla terra e, precisamente, da un padre terreno, non dalla Madre Terra”.
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In ambienti diversi, come ai Tropici, un popolo primitivo può seguire un’alimentazione prevalentemente vegetale, basata sulla raccolta della frutta, o sull’agricoltura. Le donne si occupano di allevare i bambini, e spesso anche di coltivare la terra e di costruire case. In queste culture, la donna-madre “personifica le potenze generatrici della terra”: dà la vita, fa nascere e nutre. Allora al centro della loro mitologia c’è una divinità femminile: la Terra, la Dea Madre, che personifica la fertilità. Gli esseri umani sono i suoi figli e la pregano perché produca ricchezze e frutti per nutrirli.
Inoltre, in una foresta tropicale, l’essere umano si trova costantemente di fronte all’evidenza del ciclo vitale: la vegetazione decade, e dal marcio spunta nuova vita. L’idea che logicamente ne consegue è che “dalla morte nasce la vita”. Da qui derivano gli assassini rituali, cioè dalla credenza che il sacrificio porta nuova vita.
Questi miti e riti affermano “l’orrido fatto che la vita si nutre della morte”. E allora le vittime sacrificate spesso vengono mangiate. È quello che chiamiamo con orrore “cannibalismo”. Ma anche nel rituale della messa cattolica, i fedeli mangiano il “corpo di Cristo”, che okay, non è un vero cadavere, ma è lo stesso rito: ne è rimasto solo il simbolo, è stato sublimato.
Campbell racconta che spesso gli viene chiesto se crede in Dio, e se si immagina una divinità maschile o femminile: “Per quanto mi riguarda, una volta Alan Watts mi chiese quale pratica spirituale seguivo. «Sottolineo libri», risposi.” (che è praticamente anche la mia religione).
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Il problema del genere, e dell’opposizione maschile/femminile, si trova anche all’interno del singolo individuo.
Un uomo deve essere principalmente maschile: la società gli assegna un ruolo da interpretare e determinati compiti da svolgere, diversi da quelli femminili. Tutte le parti di sé che la società non gli permette di sviluppare, vengono represse nell’inconscio e costituiscono il suo lato femminile, che Jung chiama anima. Analogamente, l’ideale maschile nell’inconscio femminile è chiamato animus. Ognuno porta in sé entrambi i generi, ma tutte le società umane permettono di evidenziarne soltanto uno, così l’altro viene interiorizzato.
“In entrambi i casi l’ideale sepolto all’interno tende a essere proiettato all’esterno. Di solito chiamiamo questa esperienza innamoramento: proiettiamo il nostro ideale del sesso opposto su una persona che, per una sorta di magnetismo, porta a far emergere il nostro animus/anima.”
Il problema è che la realtà è sempre imperfetta, e soprattutto è sempre diversa dai nostri ideali e proiezioni: quando due innamorati cominciano a conoscersi “il disinganno è inevitabile. Uno aveva un ideale e l’ha sposato; improvvisamente nota cose che non quadrano con la propria proiezione”. Così l’innamoramento finisce, e si presentano due opzioni: sbarazzarci del tizio del momento e trovarne un altro su cui proiettare più agevolmente il nostro animus/anima, almeno per un po’ di tempo; oppure adottare l’atteggiamento che Campbell definisce compassione: “Ho sposato solo un essere umano. D’accordo, anch’io sono un essere umano”. Jung sostiene la necessità di liberarsi delle proprie proiezioni e in particolare dell’attaccamento al proprio animus/anima: “Jung chiama questo processo “individuazione”: vedere sé e gli altri nei termini di ciò che effettivamente sono e non nei termini di tutti gli archetipi, che uno proietta intorno o che gli altri proiettano su di lui”.
Be’, è una teoria che si può condividere o meno, ma comunque è interessante, considerando tra l’altro che Joseph Campbell è stato sposato cinquant’anni con Jean Erdman (una sua ex studentessa, ballerina e coreografa, che ha attualmente 98 anni). E il matrimonio è finito solo perché lui è morto.
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Campbell fa poi tutto un discorso sulle opposizioni che non sono sicura di aver capito, comunque parla di Sigfrido (detto anche Siegfried o Sigurd), eroe epico della mitologia norrena, che uccide Fáfnir (o Fáfner), un tizio che si era trasformato in drago.
Sigfrido trafigge il drago e raccoglie il suo sangue in una fossa, dove fa il bagno: perché immergersi nel sangue di drago conferisce il dono dell’invulnerabilità. Ma una foglia di tiglio gli si posa accidentalmente sulla schiena, tra le scapole, e quello resta il suo unico punto debole.
Questa storia ha una sorprendente somiglianza con quella di Achille, l’eroe greco: la sua mamma Teti lo aveva inzuppato nelle acque dello Stige per renderlo invulnerabile, ma lo teneva per il famoso tallone, che dunque non venne bagnato e rimase il suo punto debole. Così Achille combatte eroicamente la guerra di Troia finché Paride lo colpisce con una freccia – dove? – esattamente nel suo tallone d’Achille.
Nessuno si stupirà, quindi, leggendo che Sigfrido alla fine viene colpito – dove?? – esattamente nel suo tallone d’Achille, ovvero tra le scapole. E muore.
Ma torniamo indietro, all’uccisione di Fáfnir: Sigfrido assaggia il sangue del drago, e acquisisce la capacità di comprendere il linguaggio degli uccelli. In seguito, ne mangia anche il cuore, che gli dà il dono della profezia.
Questa cosa della lingua degli uccelli mi era sembrata davvero molto molto strana, e invece ho scoperto che è un tema diffuso in numerose tradizioni mitologiche (ci farò un altro post, perché il discorso va per le lunghe).

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Comunque, quella di Sigfrido è la tipica uccisione del drago da parte dell’eroe. Il drago, nelle tradizioni occidentali, rappresenta il male, la distruzione, il lato oscuro. Per questo motivo, nel Medioevo il drago entrò nell’iconografia cristiana come simbolo di Satana, ovviamente sconfitto dall’eroe o santo di turno.
Campbell scrive che la contrapposizione è vitale, e l’equilibrio sta nella tensione continua tra gli opposti. E ha un’interpretazione interessante della leggenda di Sigfrido: “Lui e il drago sono gli opposti, ma, solo dopo aver assaggiato il sangue del drago e averlo integrato in sé, Siegfried ode il canto degli uccelli e capisce cosa stanno dicendo. Non si entra in contatto con le forze della natura, che includono sia noi sia l’altro, finché non si accetta come parte integrante di se stessi la parte in precedenza esclusa”. Perché ognuno prende una strada piuttosto che un’altra, abbandonando potenzialità che comunque aveva, le quali non vengono sviluppate ma rimangono una parte di noi, qualcosa di interiore. E Jung sostiene che “non ci si deve identificare con l’altro, ma si deve assimilarlo e riconoscere che rappresenta un altro aspetto di quel che noi siamo”.

#50 stigma

Sottotitolo: le mille vite di una parola greca.

Nella scrittura greca del medioevo e dell’epoca moderna, lo stigma, ϛ, è una legatura delle lettere sigma (Σ σ), e tau, (Τ τ), cioè praticamente s e t. Lo stesso segno è usato anche come simbolo del numero 6.

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Stigma, maiuscolo e minuscolo

In calligrafia e in tipografia, una legatura è l’unione di due o più lettere in un unico simbolo. Tra le legature più note ci sono ad esempio æ (ovviamente a+e) e œ (o+e).
Anche la ß tedesca (Eszett) è una legatura. Ho capito oggi (dopo anni trascorsi a chiedermi perché mai i tedeschi avessero una lettera così strana, che assomiglia tanto a una B ma si legge come una doppia S) che la ß è composta da una “s lunga” (ſ, una forma antica della lettera s minuscola) seguita da una “s rotonda” (una s “normale”) oppure da una z, minuscole. Questo spiega anche perché, nonostante sia così alta e grossa, la ß sia una lettera minuscola.

Eszett
Come nasce una Eszett

 

Stigma, in greco, significava marchio, punto, puntura, segno. La parola passò ad indicare il segno specifico della legatura ϛ perché questo rappresentava appunto il suono st-, e per l’analogia con il nome della lettera sigma. Lo stigma ϛ è anche molto simile alla lettera sigma usata in posizione finale ς (sono già in confusione).

Da stigma nel senso di “marchio”, deriva stìgmate o stìmmate, che “nel linguaggio ecclesiastico indica le piaghe sul corpo di Cristo in conseguenza della crocifissione (nelle mani, nei piedi e nel costato), attorno alle quali, dal medioevo, si sviluppò un culto particolare. Di qui il termine è usato per il fenomeno della riproduzione – temporanea o permanente, completa o parziale – delle piaghe di Cristo nel corpo di alcuni santi.”
Siccome la mia formazione musicale è stata più intensa di quella religiosa, mi viene in mente Stigmata Martyr dei Bauhaus, che è una gran bella canzone.

Il termine stigma è usato anche in zoologia e si riferisce alle aperture respiratorie di certi insetti o altri animali. Da qui numerosi buffi nomi di ordini di acari: criptostigmi, mesostigmi, notostigmati, eterostigmi, prostigmati.

In botanica si chiama stigma o stimma la parte del gineceo che riceve il polline durante l’impollinazione.

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La sessualità dei fiori non l’ho mai capita (e anche su quella umana a volte ho qualche dubbio) ma ho trovato qualche informazione base:
Il gineceo è l’insieme degli organi riproduttivi femminili del fiore. È costituito da uno o più pistilli. Alla base del pistillo si trova l’ovario, che contiene gli ovuli.
L’androceo è invece l’insieme degli organi maschili, ed è costituito da uno o più stami. Alla sommità di ogni stame si trova l’antera. Dall’antera fuoriuscire il polline quando è maturo.
Quando il polline arriva sullo stigma, da lì raggiunge l’ovario, dove feconda l’ovulo, dal quale si sviluppa un embrione che si trasformerà in seme.
I fiori possono avere organi solo femminili, solo maschili, oppure entrambi.

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Lo stigma, femminile, è lì al centro, in cima al suo stilo, circondato dagli stami maschili con le loro antere.

Da stigma nel senso di “marchio” o “segno distintivo” deriva stigmatizzazione: un fenomeno sociale che consiste nella discriminazione di una persona o di un gruppo, sulla base di caratteristiche che sono percepite negativamente dagli altri membri della società. Le caratteristiche in questione variano da una società all’altra, e possono riguardare disabilità fisiche, malattie mentali, identità o orientamento sessuale, etnia, nazionalità, religione, o in generale qualità, condizioni o comportamenti percepiti come devianti, spesso giudicati inferiori o vergognosi, e quindi oggetto di disapprovazione. I soggetti vittime di stigmatizzazione vengono in genere emarginati. In inglese la parola stigma (o social stigma) viene usata in questo significato.