L’esistenza del passato e la creazione del giovedì

Stavo facendo ricerca sui viaggi nel tempo, e specialmente sui viaggi nel passato, quando mi sono imbattuta in questo super dubbio:

Il passato… è davvero esistito?

piramidi antico egitto
Costruzioni di un’antica civiltà, oppure…? (foto di Les Anderson da Unsplash)

Il passato non è qualcosa che esiste come esistono gli oggetti o le persone: il passato esiste nei nostri ricordi e nelle tracce che ha lasciato, come antiche costruzioni, resti fossili, vecchi libri e fotografie, eccetera. Ma se tutto questo avesse cominciato a esistere, per dire, giovedì scorso? Letteralmente tutto, comprese le nostre memorie: potrebbe essere comparso giovedì scorso.
È la teoria del Last Thursdayism (qualcosa come “ultimo giovedismo” in italiano). E non è confutabile: non puoi davvero dimostrare che sia falsa. Hai un libro pubblicato nel 1972? Hai una tua foto di dieci anni fa? Uno yogurt in frigo scaduto da due settimane? Tutto quanto, così com’è, potrebbe essere stato generato giovedì scorso.
E per quanto riguarda la memoria: un ricordo del passato, in effetti, è qualcosa che accade ora, nel presente, non nel passato a cui si riferisce, e l’esistenza di un ricordo non implica necessariamente che l’evento ricordato sia accaduto (lo dice Bertrand Russell in L’analisi della mente, Lezione IX – La memoria).

Bertrand Russell
Bertrand Russell in un ritratto di Arturo Espinosa (CC BY 2.0)

Il Last Thursdayism è anche una presa per il culo delle convinzioni di certi creazionisti, secondo i quali dio ha creato la terra del tutto funzionante e con elementi complessi che possono apparire vecchi, ovvero frutto di un lungo processo di formazione o evoluzione, come le montagne e gli esseri umani.
Si tratta della omphalos hypothesis, la “teoria dell’ombelico” (omphalos in greco, navel o belly button in inglese): prende il nome dal libro Omphalos, del 1857, del naturalista inglese Philip Henry Gosse, che sostiene, tra le altre cose, che dio ha creato Adamo con l’ombelico perché l’ombelico è una parte essenziale della natura dell’uomo. Tra i creazionisti c’è chi, invece, ritiene che Adamo ed Eva non avessero l’ombelico, perché sono stati creati da adulti e non sono nati da una normale gravidanza. Philip Henry Gosse sostiene anche che i fossili non sono resti di antiche forme di vita, ma sono stati creati da dio insieme a tutto il resto, per dire.
A proposito di ombelico: tutti i mammiferi placentati hanno l’ombelico, anche se in molti animali è difficile da vedere perché coperto dal pelo. La forma dell’ombelico varia da persona a persona ed è determinata dal processo di cicatrizzazione dei tessuti dopo la recisione del cordone ombelicale, dunque non costituisce un carattere genetico (lo dice Wikipedia: non sono convintissima perché ho una grossa percentuale di parentado con l’ombelico identico al mio. Forse ci sono elementi di contesto, determinati geneticamente, che influiscono in parte sulla forma che prende la cicatrice?).

ombelico gattino
L’ombelico di un gattino, ancora non del tutto cicatrizzato (foto presa da qui).

Ma torniamo alla omphalos hypothesis: se dio ha creato cose che, anche appena create, sembravano antiche, di conseguenza non c’è niente che possiamo considerare una prova attendibile dell’età della terra. Dunque non hanno alcun valore le numerose e diverse prove scientifiche che stimano un’età di 4,5 miliardi di anni, e la terra potrebbe avere solo poche migliaia di anni, coerentemente con i testi biblici. Ma allora, chi ci dice che la creazione non risalga a giovedì scorso, o a cinque minuti fa?
Bertrand Russell ne parla nel libro e capitolo sopra citato:

There is no logical impossibility in the hypothesis that the world sprang into being five minutes ago

Curiosità: ho scoperto il Last Thursdayism grazie a un vecchio video di Vsauce pubblicato il 6 febbraio 2015 (o generato giovedì scorso, insieme a tutto il resto, ma con una data antecedente? Chissà!), video in cui tra l’altro accenna alla macchina di Anticitera, di cui avevo parlato qui, conservata al Museo archeologico nazionale di Atene. Poi ho cercato il Last Thursdayism su Google Trends: c’è un enorme picco nelle ricerche, proprio nel febbraio 2015. Vsauce smuove orde di googlatori!

Vsauce e la macchina di Anticitera
Vsauce e la macchina di Anticitera. Screenshot da YouTube.

Ma torniamo al Last Thursdayism.
Tuttavia, se abbiamo tonnellate di tracce di eventi passati, antiche civiltà, ere geologiche, e quant’altro: non sarà più probabile che, in effetti, il passato sia davvero esistito? L’ipotesi che la terra abbia circa 4,5 miliardi di anni e che in questo arco di tempo siano accadute un fracco di cose è più semplice e più lineare da spiegare rispetto all’ipotesi della creazione di giovedì scorso, e dunque la prima è da preferire alla seconda, sulla base del rasoio di Occam. C’è poi la “fiammeggiante spada laser di Newton” (Newton’s flaming laser sword), che è un altro “rasoio” filosofico, nel senso di principio metodologico o regola generale, di buon senso, che aiuta a escludere spiegazioni improbabili. Per chi avesse pensato subito a Star Wars, precisiamo che la mitica arma di Jedi e Sith è generalmente chiamata lightsaber (tipo “sciabola di luce”) ma a volte anche laser sword. Comunque, il principio della fiammeggiante spada laser di Newton può essere riassunto così: se non può essere sottoposto a esperimento, non vale la pena di discuterne. Sir Isaac Newton non lo ha mai detto, così come probabilmente non ha mai impugnato una spada laser: è opera del matematico australiano Mike Alder, che ha chiamato il suo principio in onore di Newton perché si basa sul pensiero newtoniano. Per le questioni che non possono essere (volevo usare il verbo “dirimere” ma… manca del participio passato!), diciamo, risolte con un esperimento, è inutile dibattere se siano vere o false, cercare di dimostrarle o di confutarle, semplicemente non è il caso di parlarne. Questa spada è insomma un’arma più potente del vecchio rasoio di Occam, perché permette di “tagliar via” più cose – tra cui la creazione di giovedì scorso: non possiamo dimostrarla con un vero esperimento scientifico, e allora non c’è niente da dire.

sith isaac Newton Star Wars che la massa per accelerazione sia con te
L’augurio di Newton (da Nonciclopedia, CC-BY-SA 3.0)

Immagine in evidenza: foto di Anete Lūsiņa da Unsplash, modificata da Wellentheorie.


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Hudson e il passaggio a nord-ovest

Henry Hudson era nato in Inghilterra attorno al 1570, e faceva l’esploratore. Intraprese vari viaggi con lo scopo di trovare un passaggio a nord-ovest che collegasse l’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico e che avrebbe permesso di navigare dall’Europa all’Asia attraverso il Mar Glaciale Artico.
Era dalla fine del Quattrocento che questa rotta veniva cercata senza successo, e Henry Hudson non fece eccezione.

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(Mappa da Mapswire, CC BY 4.0, modificata da Wellentheorie)

Nel 1609 Henry Hudson ottenne dei finanziamenti della Compagnia Olandese delle Indie Orientali e partì a bordo della Halve Maen (“Mezzaluna”) andando a esplorare la costa orientale del Nord America, tra cui le zone che attualmente chiamiamo Cape Cod, il Maine, le città di New York e Albany.

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Sì, esistono dei meme su Henry Hudson. (Da un tweet di Albany Archives).

L’anno successivo, finanziato stavolta dagli inglesi e a bordo della Discovery, raggiunse le coste dell’attuale Canada e navigò per uno stretto e una baia che presero i nomi di Stretto di Hudson e Baia di Hudson (Hudson Strait e Hudson Bay).

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I viaggi di Henry Hudson (il primo in rosso, il secondo in blu).

All’epoca non c’era Google Maps e, quando navigavi in uno stretto e entravi in una baia, non sapevi dove ti avrebbe portato: magari in Asia, magari bloccato tra i ghiacci.

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Su Twitter esistono almeno un paio di simpatici account a nome di Henry Hudson. (Fonte)

«A novembre la nave rimase intrappolata nei ghiacci nella Baia di James [un’insenatura della baia di Hudson], cosicché l’equipaggio sbarcò a terra per passare l’inverno. Quando il ghiaccio si sciolse nella primavera del 1611, Hudson avrebbe voluto continuare l’esplorazione, ma l’equipaggio voleva tornare a casa. Alla fine la crisi sfociò nell’ammutinamento dell’equipaggio nel luglio del 1611, e Hudson, suo figlio e altri uomini vennero abbandonati alla deriva in una piccola barca.» E qui Wikipedia conclude, lapidaria, così: «Non furono più visti».

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L’ironia su Twitter.

Dopo i fallimenti di Henry Hudson, si continuò a cercare il passaggio a nord-ovest.
Tra i primi a trovarlo ci fu il norvegese Roald Amundsen (1872 – 1928), il quale annovera tra i propri meriti anche aver ispirato il nome di battesimo di Roald Dahl (ne avevo parlato qui).
Nel 1903 Roald Amundsen partì per una spedizione: la sua nave, Gjøa, attraversò la Baia di Baffin (a nord della Baia di Hudson), arrivò lungo la costa dell’isola di Re William e rimase bloccata dai ghiacci per due anni, durante i quali Amundsen e il suo equipaggio girarono in slitta nei dintorni determinando la posizione del Polo Nord Magnetico e facendo amicizia con gli Inuit. Nel 1905 la Gjøa ripartì, rimase di nuovo bloccata nel ghiaccio, e alla fine arrivò allo stretto di Bering nel 1906.
Come si può intuire, le acque attorno al Polo Nord sono spesso ghiacciate. Ma negli ultimi anni, in conseguenza del riscaldamento globale, i ghiacci sono sempre meno ghiacciati e il passaggio a nord-ovest è percorribile anche da grandi navi commerciali.

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Le esplorazioni dell’artico. Quella di Amundsen in azzurro.

Northwest Passage (Passaggio a nord-ovest), oltre a essere un romanzo del 1937 dello scrittore statunitense Kenneth Roberts, è il titolo originale della serie Twin Peaks (1990-1991) di David Lynch e Mark Frost (della quale quest’anno è uscita la terza stagione, attesa per 25 anni) ed è il titolo di un episodio della serie Fringe (stagione 2, episodio 21) ricco di atmosfere alla Twin Peaks.

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Joshua Jackson (Peter Bishop) nel suddetto episodio di Fringe: il legno sulle pareti fa subito Twin Peaks.

Ma torniamo al 1609, quando Henry Hudson, inglese temporaneamente al servizio degli olandesi, esplora l’attuale Manhattan e risale, per un tratto, il fiume che in quel punto affluisce al mare: l’attuale fiume Hudson.
Queste esplorazioni pongono le basi per il primo vero e proprio insediamento in quella zona, che è olandese e risale al 1625: si chiama Nuova Amsterdam (Nieuw Amsterdam).
Quarant’anni dopo, in seguito a una guerra tra inglesi e olandesi, Nieuw Amsterdam diventa britannica e diventa New York, in onore del Duca di York e Albany, futuro Re Giacomo II Stuart (1633-1701), ultimo re cattolico d’Inghilterra, Scozia, e Irlanda (il suo successore, o succeditrice, fu la figlia Maria II, protestante).
Nel 1673, durante una nuova guerra anglo-olandese, gli olandesi occupano la città e si affrettano a cambiarne il nome, stavolta in New Orange (in onore di Guglielmo III d’Orange, il quale, peraltro, pochi anni dopo avrebbe sposato Maria II Stuart, la figlia di Giacomo II, che poi era sua cugina di primo grado). Un anno dopo, finita la guerra, New Orange torna britannica e torna a chiamarsi New York.

Vi ho fatto uno schemino perché il discorso è complesso:
Nieuw Amsterdam New York Duca di York e Albany Re Giacomo II Stuart Nieuw Orange Guglielmo III d’Orange Maria II Stuart
(L’albero genealogico degli Stuart, martoriato dalle modifiche di Wellentheorie, è di Wdcf da Wikipedia, CC BY-SA 3.0)

Proseguirei volentieri a disquisire del fiume Hudson e dei suoi ponti ma rischio di superare ogni limite di lunghezza imposto dalla decenza e dunque ci fermiamo.
Qui trovate un video istruttivo su Henry Hudson (da cui peraltro proviene l’immagine in evidenza di questo post).


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La vera vita di Sebastian Knight

Vladimir Nabokov Vera Nabokov specchio macchina da scrivere

Ho aspettato tanto a leggere questo romanzo di Nabokov, perché il titolo non mi ispirava affatto. Forse non avevo nessun interesse a leggere la vita di Sebastian Knight. Ma il libro delude in pieno le aspettative suscitate dal titolo, e di Sebastian Knight si parla tanto ma si dice davvero poco: la vera storia al centro dell’opera è quella del fratellastro di Sebastian che, dopo la morte di quest’ultimo, si dedica alle ricerche per scriverne una biografia. Ricerche appassionate e disperate quanto inconcludenti: il narratore segue per lo più delle piste false, ingannevoli o futili, che non lo portano da nessuna parte. È una storia di deviazioni, sbagli e fraintendimenti, mistificazioni. Lungo questo viaggio scopriamo, in piccola parte, la vita di Sebastian, geniale scrittore morto in giovane età, e, in dose ben maggiore, i pensieri, le impressioni, i sentimenti, e le peripezie del narratore. Un narratore di cui, peraltro, non sappiamo niente: mentre il nome del fratello appare fin dalla copertina, quello del narratore non viene mai esplicitato (soltanto una volta viene chiamato “V.”).

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In definitiva, lo scrittore (Nabokov) scrive un romanzo che sarebbe, nella finzione letteraria, la biografia che un autore (il fratellastro, V.) ha scritto su un noto scrittore (Sebastian Knight). La biografia, tra l’altro, contiene ampie citazioni da un romanzo di Sebastian, Oggetti smarriti, che è la «sua opera più autobiografica». Inoltre V. scrive per confutare un’altra biografia di Sebastian, La tragedia di Sebastian Knight di Mr. Goodman, a suo parere inesatta e disonesta. Mi ha fatto pensare a un infinito gioco di specchi, o alle matrioske. Il libro stesso, ripensandoci dopo averlo concluso, ricorda parecchio l’ultimo romanzo di Sebastian, L’asfodelo incerto («Il tema del libro è semplice: un uomo sta morendo»). Inoltre ho letto qui che questo libro viene spesso definito una “detective story”, ma “scritta alla maniera di Nabokov, e cioè ironicamente capovolta”, cosa che ricorda da vicino La sfaccettatura prismatica, il primo romanzo di Sebastian, descritto come «un’amena parodia dello scenario di un racconto poliziesco» («a rollicking parody of the setting of a detective tale»). Il narratore, infatti, riassume e commenta i libri di Sebastian, dei quali troviamo, all’interno della narrazione, numerose citazioni.

Ho fatto uno schemino per semplificarvi la vita:

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Ma cos’è un asfodelo?

Asfodèlo o asfòdelo, anticamente chiamato asfodillo, dal greco ἀσϕόδελος, è una pianta del genere Asphodelus, della famiglia delle liliacee, che vive nei prati incolti e soleggiati.
Probabilmente a causa del colore pallido dei fiori, l’asfodelo fu associato dagli antichi greci alla morte e all’oltretomba: “secondo Omero (cfr. Odissea XI, 539, 573), le ombre dei morti si aggirano su prati di asfodelo” (Treccani). E il tema della morte è centrale ne L’asfodelo incerto, come del resto la morte di Sebastian incombe per tutto questo libro di Nabokov.

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Asfodeli

Il personaggio di Sebastian presenta diverse caratteristiche in comune con il suo autore Nabokov, come ad esempio l’abitudine di dettare ad alta voce alla propria amata che batte a macchina (Nabokov lo faceva con la moglie Vera), l’ossessione per le parole, il russo come lingua madre e l’ostinazione a scrivere nella lingua del paese di adozione, l’inglese. Entrambi sono nati nel 1899 in Russia e, dopo essere emigrati nel periodo della rivoluzione, hanno studiato a Cambridge.
D’altra parte, credo che anche il narratore abbia parecchio in comune con lui, a partire dall’iniziale: V. come Vladimir. Entrambi, Nabokov e V., vivono a Parigi (Nabokov non si era ancora trasferito negli Stati Uniti all’epoca). Come dicevo, un gioco di specchi. E anche Nabokov aveva un fratello che iniziava per S.: Sergei (di cui ho parlato qui. Sergei, come Sebastian, è morto giovane, ma dopo che il libro fu scritto). Come V. e Sebastian, anche Vladimir e Sergei si erano forse allontanati e persi di vista. Proprio il tema dello specchio e del doppio, che ricorre in Nabokov, potrebbe derivare dal rapporto di affinità e contrapposizione col fratello. Ho anche letto (qui) che Sebastian, come Sergei, potrebbe essere gay, ma onestamente non mi sembra.

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L’effetto tipo tunnel senza fine creato da due specchi paralleli ha un nome e si chiama “Infinity mirror”.

Nel brano che ho proposto qui, si dice che Sebastian «faceva quello che io penso nessun altro scrittore abbia mai fatto – ricopiava con la sua calligrafia obliqua […] il foglio già battuto, e poi lo dettava da capo». Non ho trovato informazioni in proposito, ma sono pronta a scommettere che Nabokov facesse lo stesso (anche perché gli piace l’ironia e prendere per il culo il lettore). Infine Nabokov, come sempre nelle sue opere, dissemina dettagli di se stesso e delle proprie passioni per tutto il libro: gli scacchi e le farfalle compaiono di sfuggita, e chissà quante altre cose che non ho individuato. Tra l’altro, il cognome di Sebastian è, in inglese, il cavallo degli scacchi (knight), mentre il cognome di Clare (bishop) è l’alfiere.

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Nel caso vi stiate chiedendo come si chiamano i pezzi degli scacchi in inglese.

Nel libro, i fatti sono presentati dal punto di vista del narratore e delle sue ricerche ma grossomodo nell’ordine cronologico della vita di Sebastian. L’ultimo capitolo, che tratta della sua morte, è dunque la conclusione lineare della sua storia ma rappresenta una sorta di flashback per il narratore, che ha vissuto quel momento prima di intraprendere le ricerche raccontate nel resto del libro. Quest’ultimo capitolo è, per me, un capolavoro, quasi un trucco di magia: dà un affanno sconfinato, è emozionante, e – niente spoiler, ma sappiate che Nabokov vi trolla fino all’ultimo.

 

Vladimir Nabokov Vera Nabokov specchio macchina da scrivere
Vladimir Nabokov (nello specchio!) detta e Vera Nabokov scrive a macchina.

A differenza di altre sue opere, come Invito a una decapitazione di cui avevo parlato qui, si legge con facilità, ma ci vuole un po’ più di attenzione per cogliere gli “strati” meno espliciti. Questo è un libro che ha un meccanismo possente, complesso e bellissimo, e, come qualsiasi cosa di Nabokov, è scritto meravigliosamente.

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Quanto ci piacciono i giochi di specchi.

Un ultimo fun fact: ho letto qui che i Marlene Kuntz hanno scritto una canzone ispirata a un passaggio di questo libro.

citazioni accidentali: La vera vita di Sebastian Knight

Oggi, come un anno fa (qui e qui), vi propongo una citazione e un post più dettagliato (prossimamente!) su Vladimir Nabokov (che, se non l’aveste capito, è uno dei miei scrittori preferiti) e su questo suo meraviglioso romanzo.

la vita di seb

La vera vita di Sebastian Knight (The Real Life of Sebastian Knight) è il primo romanzo che Vladimir Nabokov, russo, scrisse in inglese. Pubblicato nel 1941, fu scritto tra la fine del 1938 e l’inizio del 1939, quando l’autore abitava a Parigi, pare, in un appartamento così piccolo da costringerlo a usare il bagno come studio (scriveva usando come scrivania una valigia appoggiata sul bidet (fonte) e la cosa che mi stupisce di più è la presenza di un bidet a Parigi).

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Nabokov. La simpatia di quest’uomo è praticamente palpabile.

Un paio di curiosità sul bidet: anche se Wikipedia sembra insinuare un’origine italiana, altre fonti lo dichiarano un’invenzione francese del primo Settecento. Tuttavia, il bidet si trova attualmente nel 40% circa delle abitazioni francesi. La percentuale è crollata negli ultimi decenni per questioni economiche e di spazio. In Italia, invece, l’installazione del bidet è stata addirittura resa obbligatoria dal Decreto ministeriale del 5 luglio 1975, articolo 7, comma 3: «Per ciascun alloggio, almeno una stanza da bagno deve essere dotata dei seguenti impianti igienici: vaso, bidet, vasca da bagno o doccia, lavabo.» Sarebbe carino se anche l’utilizzo quotidiano del bidet fosse reso obbligatorio per legge, ma non si può avere tutto dalla vita.
I tedeschi e gli inglesi sono, dice Wikipedia, tra gli europei che lo usano meno: rispettivamente il 6% e il 3%. A questo punto vi chiederei, cari lettori, se per caso avete esperienze di sesso orale con esemplari di questi popoli che volete raccontarci. Ci piacciono le storie horror.

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Volevo mettere la foto di un bidet ma alla fine ho optato per il nostro Nabokov.

Ma basta con le digressioni e passiamo senza ulteriori indugi alla citazione!

Clare aveva imparato a scrivere a macchina, e le sere estive del 1924 erano state per lei altrettante pagine infilate nel rullo e poi estratte vibranti di parole nere e viola. Mi piacerebbe immaginarla china sui tasti lucenti con l’accompagnamento di una pioggia tiepida che fruscia tra gli olmi scuri di là dalla finestra aperta, mentre la voce lenta e seria di Sebastian (lui non si limitava a dettare, diceva Miss Pratt, – officiava) va e viene attraverso la stanza. Sebastian passava la maggior parte della giornata a scrivere, ma la sua gestazione era così laboriosa che raramente la sera c’erano da battere più di due paginette nuove e anche queste dovevano essere rifatte più volte, perché l’autore si abbandonava a un’orgia di correzioni; e ogni tanto faceva quello che io penso nessun altro scrittore abbia mai fatto – ricopiava con la sua calligrafia obliqua, così poco inglese, il foglio già battuto, e poi lo dettava da capo.
La sua lotta con le parole era quanto mai tormentosa, e per due motivi. Uno l’aveva in comune con scrittori del suo genere: il bisogno di colmare l’abisso tra espressione e pensiero; la sensazione esasperante che le parole giuste, le parole uniche, aspettano sulla riva opposta, nella lontananza caliginosa, mentre i brividi del pensiero ancora ignudo le invocano da questa parte dell’abisso. Non gli servivano le frasi già confezionate perché le cose che lui voleva dire avevano una taglia eccezionale, e inoltre sapeva che nessuna vera idea può esistere veramente senza le parole tagliate su misura. Cosicché (per usare una similitudine più calzante) il pensiero, solo in apparenza nudo, implorava in realtà che gli abiti di cui era già rivestito divenissero visibili, mentre le parole appostate lontano non erano gusci vuoti, come sembravano, ma aspettavano soltanto che il pensiero in esse già celato le accendesse e le mettesse in moto. A volte lui si sentiva come un bambino cui avessero dato una farragine di fili ordinandogli di compiere il miracolo della luce. E lui infatti lo compiva; e talvolta non si rendeva neanche conto del modo in cui ci riusciva, talaltra invece tormentava i fili per ore in quella che sembrava la maniera più razionale – senza concludere nulla. E Clare, che in vita sua non aveva composto neanche una riga di prosa immaginativa o di poesia, capiva così bene (e questo era il suo miracolo personale) ogni particolare della lotta di Sebastian che per lei le parole battute a macchina non erano tanto i veicoli del loro senso naturale quanto le curve e i vuoti e gli zigzag che mostravano l’arrancare di Sebastian lungo una certa linea ideale di espressione.

Tra l’altro, «il bisogno di colmare l’abisso tra espressione e pensiero» ricorda da vicino un argomento affrontato di recente qui su Wellentherie: l’ipotesi Sapir-Whorf.

Stay tuned per il prossimo entusiasmante post.

#108 parole “intraducibili”: emozioni

Tiffany Watt Smith si occupa, tra le altre cose, di studiare e fare ricerca sulle emozioni e sulla storia delle emozioni. Sull’argomento ha scritto, nel 2015, The Book of Human Emotions, in cui riporta 154 tra neologismi e parole in varie lingue del mondo che descrivono particolari emozioni, spesso prive di equivalenti in inglese o in italiano.
C’è chi si lascia prendere la mano e sostiene che i coreani e gli scandinavi vivono emozioni diverse perché le loro lingue danno forma in modo diverso al loro emozionarsi (ne parlerò nel prossimo post), ma, in ogni caso, le stranezze linguistiche ci piacciono, gli elenchi ci entusiasmano; ecco dunque cinque delle parole “intraducibili” trattate nel sopracitato libro.

7Tiffany Watt Smith
Tiffany Watt Smith

Awumbuk

Nella lingua del popolo Baining della Papua Nuova Guinea, awumbuk si riferisce alla malinconia e al senso di vuoto che si prova quando gli ospiti che ci hanno fatto visita sono andati via.

10Papua Nuova Guinea
Eccola lì, la Papua Nuova Guinea.

L’appel du vide

“Il richiamo del vuoto”, in francese, è il pensiero o l’impulso di lanciarsi da una grande altezza, di buttarsi sulle rotaie del treno, o di girare il volante verso il precipizio oltre una scogliera o contro un ostacolo. In psicologia è chiamato anche High Place Phenomenon perché avviene perlopiù in luoghi sopraelevati, ma si tratta in generale del pensiero, improvviso e involontario, di un comportamento autodistruttivo. Non è, come si potrebbe pensare, un istinto suicida, ma è una sensazione correlata alla paura e all’istinto di sopravvivenza.

1 appel du vide
L’appel du vide illustrato da Marija Tiurina

Circa due anni e mezzo fa avevo parlato della serie di illustrazione dal titolo Found in Translation di Anjana Iyer. Non è la sola ad aver tentato una rappresentazione visiva di parole “intraducibili”: anche Marija Tiurina ne ha illustrate quattordici, tra cui alcune per le emozioni.

2Marija Tiurina
Marija Tiurina, con un gatto.

Basorexia

La basorexia è la pulsione, il desiderio urgente e irrefrenabile di baciare qualcuno.
Non ho trovato spiegazioni sulla sua etimologia (se non che deriverebbe dal francese “baiser”, “bacio”), ma io azzarderei che deriva dal latino basium, a sua volta di origine incerta e controversa, a cui è aggiunto il greco ὄρεξις (órexis) che significa desiderio, voglia, appetito o fame, dal quale viene il suffisso italiano -oressìa, usato in medicina in relazione all’appetito e all’alimentazione (anoressìa, disoressia, licoressìa, paroressìa, iperoressìa, ortoressìa).

5Alfred Eisenstaedt
La foto di Alfred Eisenstaedt

Nell’arte di tutti i tempi ci sono meravigliose opere che ritraggono baci, ma tra tutte mi è venuta in mente la celebre fotografia del marinaio e l’infermiera a Times Square, scattata il 14 agosto 1945 dopo l’annuncio della resa del Giappone (è il VJ Day o Victory Over Japan Day). Esistono in realtà almeno due foto: V-J Day in Times Square, meglio conosciuta come The Kiss di Alfred Eisenstaedt, pubblicata su Life, e un’altra, che ritrae lo stesso bacio da una differente angolazione, scattata da Victor Jorgensen e pubblicata sul New York Times.
La seconda è forse meno interessante dal punto di vista artistico, ma siccome Victor Jorgensen era un fotografo della marina americana in servizio, la foto appartiene al governo federale statunitense ed è rilasciata in pubblico dominio, e dunque l’immagine è più diffusa. Al contrario, la foto di Alfred Eisenstaedt, più bella, è protetta da copyright e il fotografo si è arricchito per ogni riproduzione.
Le facce dei due protagonisti del bacio non sono ben visibili, e negli anni parecchie persone hanno proclamato di essere il marinaio o l’infermiera. Tuttora ci sono dubbi sulle loro reali identità. Dibattuta è anche la storia dietro quel bacio: spontaneo o pianificato? Gioia patriottica festosamente condivisa oppure coercizione e slinguazzata indesiderata? Chissà.

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La foto di Victor Jorgensen

Torschlusspanik

Il “panico del cancello chiuso” è, in tedesco, l’ansia del tempo che passa troppo in fretta al confronto delle cose che dovremmo o vorremmo fare. Può essere il “ticchettio dell’orologio biologico” di una donna che ha superato i trenta e non ha figli, la “crisi di mezza età” di chi guarda avanti e vede che la vecchiaia è in arrivo, l’angoscia per le occasioni che stiamo perdendo, l’ansia per la deadline che si avvicina e ancora abbiamo troppo lavoro da fare.

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Il mio moroso vive attualmente in costante Torschlusspanik perché il suo videogioco deve uscire in autunno e non sa se riuscirà a infilarci tutte le cose fighissime che ha in testa.

Torschlusspanik (o Torschlußpanik: della lettera Eszett avevo parlato qui) è composta da Tor, cancello o portone; Schluss, chiusura o conclusione; Panik, panico.
La parola ha origine medievale, quando i castelli chiudevano i cancelli ogni sera per motivi di sicurezza oppure per prepararsi a un attacco nemico (ho trovato entrambe le versioni): non era auspicabile rimanere chiusi fuori e gli abitanti avevano l’ansia di affrettarsi a rientrare prima della chiusura.
I tedeschi usano l’espressione «Torschlusspanik ist ein schlechter Ratgeber» («Il Torschlusspanik è un cattivo consigliere») per ricordare che la fretta, l’ansia, l’impulsività di fare qualcosa all’ultimo minuto, non creano le condizioni per le decisioni migliori.

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Il Torschlusspanik illustrato da Marija Tiurina

Matutolypea

Parecchio diffusa sul web di lingua inglese ma assente nei veri dizionari, matutolypea si riferisce allo svegliarsi di cattivo umore. Non si sa chi l’abbia coniata, ma è un miscuglio di latino e greco: matuto, da Mater Matuta che, nella mitologia romana, era la dea del Mattino e protettrice delle nascite (dal suo nome deriva l’italiano mattina), e il greco λύπη (lýpi), cioè dolore, sofferenza, tristezza o infelicità. Qui la pronuncia.

3Mater-matuta.-Capua-Museo-Provinciale
Mater Matuta

E continuiamo nel prossimo post perché questo sta diventando troppo lungo. See you soon!


 

Age-otori, cafuné, culaccino, friolero, hanyauku, mamihlapinatapai, ohrwurm, pochemuchka, tingo, tsundoku, utepils: per gli appassionati di “intraducibili”, si è parlato di queste parole qui!

#106 fredric brown

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Spoiler alert!!

Questo post parla del racconto pubblicato per intero nel post precedente: se non lo avete letto, non andate oltre altrimenti vi rovinate irrimediabilmente il finale…

Sentinella (Sentry) è un racconto breve scritto da Fredric Brown nel 1954. Molto breve: poco più di 300 parole. Un piccolo capolavoro di fantascienza che è apparso in numerose antologie, tra cui Le meraviglie del possibile (1959) curata da Sergio Solmi e Carlo Fruttero.

David Douglas Duncan
Una foto scattata durante la guerra di Corea da David Douglas Duncan, che non c’entra niente, ma l’ho scelta perché risale più o meno all’epoca in cui fu scritto il racconto e ne richiama (vagamente) l’atmosfera.

La narrazione, in terza persona, assume il punto di vista del protagonista, ne descrive i pensieri e le sensazioni, e riferisce pochi fatti del passato dandoci solo una parte del contesto della vicenda. Questi pensieri e sensazioni ci appaiono del tutto condivisibili; inoltre, il protagonista è presentato come qualcuno che ha subìto una grave ingiustizia da parte di una “altra razza”, aliena, incivile, belligerante, che viene descritta come “il nemico” e “crudeli, schifosi, ripugnanti mostri”. Di conseguenza, ci viene naturale identificarci col protagonista: condividere il suo punto di vista, parteggiare per lui e per il suo popolo, contro quell’orribile nemico. Di conseguenza, ci viene naturale pensare al protagonista come uno di noi: un terrestre, un umano.
È l’ultima riga che capovolge tutto, che inaspettatamente ci costringe a riconsiderare l’intera storia, a mettere in discussione i nostri pregiudizi e la nostra visione di noi stessi. L’umano non è il buono, non è il coraggioso soldato che difende il suo popolo dagli aggressori, ma è il nemico ripugnante, feroce e sleale.

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La lotta “Uomo Vs. Mostro Alieno” sulla copertina di un numero di Worlds Unknown del 1973, contenente in realtà un altro racconto di Brown,  Arena.

La sentinella (in originale però The Sentinel) è anche un racconto di Arthur C. Clarke del 1948, che lo stesso autore ha poi ampliato ed elaborato nel romanzo 2001: Odissea nello spazio del 1968, dal quale è tratto l’omonimo film di Stanley Kubrick.
(Sentinel e Sentry sono pressoché sinonimi).

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Fredric Brown

Fredric Brown (1906 – 1972), americano, era basso di statura, rimase orfano molto giovane, amava giocare a scacchi e suonare il flauto. Nel corso della sua vita fa numerosi lavori di tutti i tipi, tra cui il fattorino, l’inserviente in un luna park e il correttore di bozze. Soffriva di asma bronchiale. Nel 1929 si sposa con Helen, dalla quale ha due figli. Più avanti divorzia, risposandosi nel 1948 con Elizabeth Charlier. Nel frattempo pubblica poesie, articoli, e soprattutto riesce a vendere a varie riviste una grande quantità di racconti polizieschi, fantastici, di mistero e di fantascienza. Scrive anche romanzi, ma si specializza nel racconto breve e brevissimo. Scrive soprattutto per intrattenere e per sbarcare il lunario, ma ha grande inventiva, senso dell’umorismo, gusto per il paradosso, idee innovative, sa creare ingegnosi intrecci e sa raccontarli con una prosa arguta, rapida ed efficace. Guadagna poco durante la sua carriera di scrittore, e non è tenuto in grande considerazione dalla critica.

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Fredric Brown

Scrittore estremamente prolifico (qui una bibliografia), è apprezzato da numerosi altri autori di fantascienza e non, tra cui Philip K. Dick, Robert Bloch, autore di Psycho, e Robert A. Heinlein, che gli ha dedicato il romanzo Straniero in terra straniera (Stranger in a Strange Land). I suoi scritti hanno anche ispirato film: ad esempio da uno dei suoi romanzi polizieschi più celebri, La statua che urla (The Screaming Mimi) sono stati tratti l’omonimo film del 1958 con Anita Ekberg e, nel 1970, L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento. Sul già menzionato racconto di fantascienza Arena, del 1944, è basato l’omonimo episodio di Star Trek (The Original Series) del 1967. Purtroppo le sue opere (e specialmente i racconti di fantascienza) non sono facilissime da trovare (la Feltrinelli, Amazon, e la mia biblioteca comunale non ne sono particolarmente forniti).

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Una scena di Arena, episodio 18 della prima stagione della serie originale di Star Trek (su Netflix è il 19, perché c’è anche l’episodio pilota che in origine venne scartato e mai trasmesso).

Non c’entra niente, ma Brown mi ha fatto venire in mente Kilgore Trout, lo sconosciuto e squattrinato scrittore di fantascienza che ricorre in vari romanzi di Kurt Vonnegut. In realtà il personaggio di Kilgore Trout è ispirato a un altro scrittore, amico di Vonnegut: Theodore Sturgeon, nome di penna di Edward Hamilton Waldo (1918 – 1985). Infatti Kilgore richiama il suono di Theodore, e Trout (trota) fa il parallelo a Sturgeon (storione). Vonnegut ha rivelato la sua fonte di ispirazione soltanto dopo la morte dell’amico, tanto che fino ad allora si era per lo più pensato che Kilgore Trout fosse un alter ego dello stesso Vonnegut.

citazioni accidentali #16: sentinella

Quella di oggi è una citazione lunga, ovvero un intero (ma brevissimo!) racconto: Sentinella (Sentry) di Fredric Brown, del 1954.
La foto qui sopra, che in realtà non c’entra per niente, ritrae dei Marines americani durante la guerra di Corea (1950-1953).
Si discuterà di racconto e autore nel prossimo post. Stay tuned!

Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa.
Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica.
Ma dopo decine di migliaia d’anni quest’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arrivava al dunque, toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano sbarcato. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della Galassia… crudeli, schifosi, ripugnanti mostri.
Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra, subito. Quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica.
E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo, e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano d’infiltrarsi e ogni avamposto era vitale.
Stava all’erta, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco.
Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso, ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, la pelle d’un bianco nauseante, e senza squame.

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I Troggs sono (stati) una rock band inglese, composta nel 1964 ad Andover, nell’Hampshire.

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Andover

Il nome, in origine, era The Troglodytes, I Trogloditi.
La parola “troglodita” viene dal greco antico τρωγλοδύτης e significa qualcosa tipo “che vive nelle caverne”, e si riferisce alle popolazioni preistoriche che abitavano, appunto, nelle caverne, oppure, in senso figurato, a persone arretrate o rozze.
I trogloditi sono anche una famiglia di uccelli, comunemente noti come scriccioli.

FILE - Reg Presley of The Troggs Dies Aged 71 Music File Photos - The 1960s - by Chris Walter
Da sinistra a destra: Ronnie Bond, Pete Staples, Chris Britton, e Reg Presley in basso al centro.

I membri fondatori dei Troggs sono stati Reg Presley (1941-2013, voce), Ronnie Bond (1940-1992, percussioni), Pete Staples (1944, basso), e Chris Britton (chitarra).
La band si è sciolta nel 1969, rimessa insieme l’anno successivo, dopodiché mi sono un po’ persa negli innumerevoli cambi di formazione. Interessante, tuttavia, che dopo la morte del cantante per cancro ai polmoni nel 2013, i componenti rimasti hanno preso un nuovo cantante e continuano a essere i Troggs. L’attuale formazione ha in comune con quella originale soltanto il chitarrista, ma è meglio di niente (mi ricorda i Nomadi e il paradosso della nave di Teseo, di cui avevo parlato qui).

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I Troggs di oggi: Chris Allen, Dave Maggs, Pete Lucas, Chris Britton.

Il cantante dei Troggs, Reg Presley, aveva lasciato giovane la scuola e ha fatto il muratore finché il singolo “Wild Thing” non è entrato nelle classifiche, e ha finito per vendere cinque milioni di copie. Autore di molti successi dei Troggs, ha scritto anche “Love Is All Around”, di cui i Wet Wet Wet hanno inciso una celebre quanto brutta cover nel 1994. Il successo della cover ha fruttato parecchi soldi al suo autore, e Reg Presley ha pensato bene di utilizzare i guadagni per finanziare ricerche su argomenti come “alien spacecraft, lost civilisations, alchemy, and crop circles” (ovvero astronavi aliene, civiltà scomparse, alchimia, e cerchi nel grano, da Wikipedia) e ha riassunto le sue scoperte nel libro Wild Things They Don’t Tell Us, pubblicato nel 2002.

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Reg Presley, il suo imbarazzante taglio di capelli, e il suo libro.

 

I Troggs hanno prodotto parecchie canzoni di successo, come “With a Girl Like You”, “Hi Hi Hazel”, e altre di cui mi accingo a parlare più dettagliatamente. La loro musica ha profondamente influenzato il garage rock, il punk rock, e numerosi artisti, da Iggy Pop ai R.E.M..
Infatti, ad esempio, la loro “I Can’t Control Myself”, scritta da Reg Presley, è stata più volte suonata dai Buzzcocks e dai Ramones.
Gli MC5, oltre ad averla suonata spesso nei loro concerti, hanno inciso “I Want You” dei Troggs nel loro album di debutto Kick Out the Jams del 1969, ribattezzandola però “I Want You Right Now”. E di quest’ultima versione hanno fatto una bella cover strumentale gli Spacemen 3 (un gruppo che, secondo Wikipedia, faceva musica dei seguenti generi: “Neo-psychedelia, alternative rock, garage rock, space rock, noise rock, drone rock, experimental rock”).
Gli Spacemen 3 hanno ripreso un’altra canzone dei Troggs, “Anyway That You Want Me”, rifatta anche dagli Spiritualized (che poi sono un gruppo fondato da Jason Pierce che prima era negli Spacemen 3). La versione di questi ultimi è stata usata come colonna sonora di una bellissima scena di Me and You and Everyone We Know, film del 2005 di Miranda July.

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I due fondatori degli Spacemen 3 (Jason Pierce in alto e Peter Kember in basso) sulla copertina del loro The Perfect Prescription (1987)

“Love Is All Around” di Reg Presley sembra piacere molto a Mike Mills dei R.E.M. (che, coincidenza!, è omonimo del Mike Mills regista e grafico che è il marito di Miranda July), e una cover in versione acustica è inclusa nel loro MTV Unplugged del 1991. La brutta cover dei Wet Wet Wet, invece, è del 1994 e compare in Quattro matrimoni e un funerale (Four Weddings and a Funeral, sceneggiatura di Richard Curtis). Ma la versione migliore e più divertente di “Love Is All Around” è senza dubbio quella di Love Actually, film del 2003 diretto da Richard Curtis, dove l’attore inglese Bill Nighy interpreta un’attempata rockstar che, alla disperata ricerca di un successo, fa una cover natalizia dei Troggs, dal titolo “Christmas Is All Around”.

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Bill Nighy in Love Actually

Vorrei inoltre segnalare “Give It To Me”, scritta da Reg Presley, inclusa tra l’altro in una scena di Blowup di Michelangelo Antonioni (1966), il cui testo è sostanzialmente questo:

Give it to me / All your love […]
And I’ll know / When you come / I’ll be there […]
Darling I’ll know you’ll come to me / I’ll be there waiting so patiently […]

 

Wild Thing” è uno dei maggiori successi dei Troggs, ed è stata scritta da Chip Taylor.
Chip Taylor (1940) è un prolifico compositore, il suo vero nome è James Wesley Voight, ed è il fratello del geologo Barry Voight e dell’attore Jon Voight. Quest’ultimo è il padre di James Haven e Angelina Jolie. Ricordatemi di scrivere un post su questa famiglia perché sembra gente con delle vite interessanti.

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Chip Taylor

Wild Thing” è stata originariamente incisa dalla band The Wild Ones nel 1965, portata al successo nella versione dei Troggs del 1966, e successivamente suonata da praticamente chiunque, tra cui:
Jimi Hendrix l’ha suonata più volte, e, in particolare, al Monterey Pop Festival nel 1967, quando al termine della canzone ha dato fuoco alla chitarra;
Amanda Lear nel 1987 (e dovete assolutamente vedere il video).

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Jimi Hendrix con la chitarra in fiamme al Monterey Pop Festival del 1967

 

E con i Troggs inauguriamo la nuova iniziativa delle “Wellen Playlist”: trovate la playlist delle canzoni citate in questo post qui su YouTube.
Vi annuncio inoltre che ho chiesto a un amico, esperto di jazz, arcana musica contemporanea e marxismo, di scrivermi un articolo su un argomento a sua scelta, e spero che accetterà la proposta. Perciò stay tuned, miei cari cinque lettori, che questo blog diventa sempre più entusiasmante.
A presto