F is for Family e l’asciuga insalata

Copia di F_Is_for_Family

F is for Family è una serie animata che trovate su Netflix, creata da Bill Burr e Michael Price (quest’ultimo ha scritto diversi episodi dei Simpson, mentre forse vi ricorderete di Bill Burr per il ruolo di Patrick Kuby in Breaking Bad).

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Huell Babineaux (Lavell Crawford) e Patrick Kuby (Bill Burr) in Breaking Bad.

Ambientata negli anni ’70, “a time when you could smack your kid, smoke inside, and bring a gun to the airport” (fonte), la serie narra dei Murphy, frustrata famiglia media americana.
Vediamo un po’ a chi appartengono alcune delle voci dei protagonisti:
Frank Murphy, il capofamiglia, è doppiato dal suo autore Bill Burr, mentre sua moglie Sue è Laura Dern, attrice che, tra le altre cose, ha fatto alcuni film di David Lynch (Velluto bluBlue Velvet, 1986, Cuore selvaggio – Wild at Heart, 1990, Inland Empire, 2006) e compare anche nella nuovissima stagione di Twin Peaks in un ruolo che non vi spoilero.

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Laura Dern nella terza stagione di Twin Peaks

Vic, il vicino di casa ricco, pieno di donne, e invidiatissimo, è doppiato da Sam Rockwell, un attore che ha fatto decine di film ma che noi ricorderemo soltanto per essere il protagonista di Moon, film di fantascienza del 2009 con la regia di Duncan Jones, che poi è il figlio di David Bowie (il cui vero nome era David Robert Jones).

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Vic, e Sam Rockwell con un gatto.
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Una scena del film Moon

Nel quarto episodio della seconda stagione, Sue ha una grande idea:

l’asciuga insalata

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L’asciuga insalata (salad spinner o salad tosser), infatti, non è sempre esistito. Nella realtà però non è stato inventato da Sue Murphy.
L’asciuga insalata moderno deriva da due brevetti dei francesi Jean Mantelet e Gilberte Fouineteau nei primi anni ’70 (anche se esistevano già meccanismi che sfruttavano la forza centrifuga in modo simile), e fu introdotto sul mercato statunitense nel 1974 dalla Mouli Manufacturing Co.
Il meccanismo della centrifuga si può attivare in vari modi, a seconda dei modelli: a manovella, tirando una corda, premendo un pulsante. Non lo sapevo, ma pare esistano anche gli asciuga insalata elettrici.

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Come si asciugava l’insalata PRIMA dell’asciuga insalata?

Ho trovato varie tecniche. Le più semplici utilizzano asciughini puliti oppure carta da cucina per tamponare le foglie lavate e assorbire l’acqua. Altri metodi sfruttano la forza centrifuga: c’è chi mette l’insalata in una borsa di plastica e la fa roteare, in modo che l’acqua si allontani dalle foglie e rimanga sul fondo della borsa. Un’ottima soluzione da appartamento. Se invece avete a disposizione un luogo all’aperto (o non vi disturba avere la casa bagnata), potete infilare l’insalata in una federa pulita, oppure avvolgerla in telo e farne un fagotto, e rotearla in giro, in modo che l’acqua esca attraverso il tessuto (quest’ultimo metodo ci è stato segnalato dal mio papà e da Ammennicoli). I miei genitori raccontano che un tempo esistevano dei cestini metallici, forati, attaccati a una catenella: ci si metteva dentro l’insalata e si andava “nell’aia” per scuoterli o roteali in modo da far uscire l’acqua (possedere un’aia, possibilmente con le galline, sembra un requisito fondamentale). Gaberricci, invece, utilizza uno scolapasta (e ci chiediamo come quest’ultimo viva la contraddizione tra il proprio nome e il proprio utilizzo).
Su YouTube ci sono alcuni tutorial:

Ma apriamoci alle avanguardie tecnologiche offerte da WordPress e inauguriamo senza indugi l’appunto de

I Grandi Sondaggi di Wellentheorie


Comunicazione di servizio: Wellentheorie ha finalmente (?) aperto un profilo Instagram ufficiale. Seguitelo per restare sempre aggiornarti sull’immaginario visivo di questo blog!

#95 dalla terra alla luna

Se Jules Verne fosse vivo oggi, avrebbe senza dubbio un blog come questo. Solo più interessante, scritto meglio, e aggiornato più spesso. I suoi romanzi sono un po’ così: pieni di curiosità, digressioni, nozioni di tutti i tipi, approfondimenti scientifici, geografici, letterari. Le trame sembrano quasi un pretesto. Ed è per questo che oggi parlo di Dalla Terra alla Luna e del suo seguito Intorno alla Luna con alcuni ‘spoiler’.

Jules Verne fotografato da Nadar
Jules Verne, fotografato da Nadar.

Dalla Terra alla Luna (titolo originale: De la Terre à la Lune, trajet direct en 97 heures 20 minutes), pubblicato nel 1865, racconta dell’iniziativa dei soci del Gun Club, associazione di artiglieri di Baltimora. Da poco conclusa la guerra di secessione americana (1861-1865) e senza la prospettiva di nuovi sanguinosi conflitti, per combattere la noia questi fanatici delle armi hanno la brillante idea di sparare un proiettile sulla luna. Si discute dettagliatamente del progetto e si comincia a metterlo in atto, con la costruzione di un gigantesco cannone idoneo a sparare il gigantesco proiettile sferico sulla luna, per i primi sedici capitoli (e senza che nessuno si chieda “ma perché dovremmo sparare un proiettile sulla luna?”).

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La nitrocellulosa.

In questa fase si stabilisce, tra le altre cose, che per il lancio del proiettile il cannone utilizzi come detonatore il fulmicotone, altrimenti detto nitrocellulosa. Questa bellissima parola dal suono vintage si usa anche in senso figurato nell’espressione “al fulmicotone” “per indicare azione rapida, impetuosa, violenta” (Treccani).
Il fulmicotone è un composto chimico derivato dalla cellulosa del cotone e sfruttato per le sue proprietà infiammabili-esplosive prima dell’invenzione della dinamite. Il fulmicotone è stato inventato nel 1845 dal tedesco Christian Friedrich Schönbein, lo stesso che qualche anno prima aveva scoperto l’ozono. La polvere da sparo era già nota da secoli. Due anni dopo, invece, l’italiano Ascanio Sobrero riesce a sintetizzare un nitrato esplosivo più stabile, la nitroglicerina. È soprattutto con la nitroglicerina che lo svedese Alfred Nobel fa un sacco di esperimenti, in uno dei quali salta in aria un capannone con dentro cinque persone, tra cui il fratello più giovane Emil (1864). Più tardi, nel 1867, Alfred Nobel riesce a stabilizzare la dinamite.

Alfred Nobel
Alfred Nobel.

È sempre divertente l’aneddoto che spiega l’origine del premio Nobel: il fratello di Alfred, Ludvig Nobel, muore nel 1888, e «Per errore, un giornale francese pubblica il necrologio della morte di Alfred condannandolo aspramente per l’invenzione della dinamite. Il titolo del necrologio recita Il mercante di morte è morto (Le marchand de la mort est mort), continuando poi: “Alfred Nobel, che divenne ricco trovando il modo di uccidere il maggior numero di persone nel modo più veloce possibile, è morto ieri”» (Wikipedia). Alfred Nobel si ritrova così nella curiosa situazione di leggere il proprio necrologio ed essere vivo. In più, il necrologio è ben poco lusinghiero. Dispiaciuto per il ricordo negativo che sta lasciando, si impegna per compensare l’invenzione della dinamite con qualcosa di bello, e nel suo testamento del 1895 istituisce i riconoscimenti noti come premi Nobel. Muore l’anno dopo per un’emorragia cerebrale nella sua villa a Sanremo in Italia.
Una cosa simile è successa anche nei Simpsons a Montgomery Burns, nell’episodio Impero mediatico Burns (Fraudcast News, stagione 15, episodio 22): Burns viene travolto dal crollo improvviso del Masso Vegliardo (Geezer Rock) e creduto morto. In realtà è sopravvissuto (nutrendosi di insetti), e quando torna in città vede che giornali e televisioni annunciano allegramente la sua morte, descrivendolo in tutta la sua malvagità. Burns reagisce però diversamente da Nobel, e compra tutti i media di Springfield per controllare l’informazione e l’opinione pubblica. In realtà non ho trovato da nessuna parta che l’episodio sia un riferimento ad Alfred Nobel, ma direi che le vicende si assomigliano molto.

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Il “Masso Vegliardo” di Springfield

Ma torniamo a Dalla Terra alla Luna.

Dicevo che nei primi sedici capitoli si comincia a mettere in atto il progetto di sparare un proiettile sferico sulla luna. Il colpo di scena arriva solo al capitolo 17, ed è peraltro spoilerato da quasi tutte le copertine (ripeto: fin qui si è parlato di un proiettile SFERICO).

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Altre copertine si spingono oltre: vedete gli oblò?

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Nel capitolo 17, infatti, entra in scena il francese Michel Ardan, personaggio energico e stravagante, ispirato al fotografo Nadar, amico di Verne (e Ardan è l’anagramma di Nadar. Ne avevo parlato qui).

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Un autoritratto di Nadar e un’illustrazione del personaggio Michel Ardan

Ardan propone di sostituire il proiettile sferico con un proiettile cilindro-conico, in modo che possa contenere una persona, cioè lui stesso, trasformando il progetto originale in una missione esplorativa.

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E qualche copertina vi svela anche il colpo di scena del finale del capitolo 21, e cioè che a partire non è solo Ardan, ma sono in tre.

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Il proiettile trasformato in veicolo per umani è spoilerato dalla maggior parte delle recensioni. Wikipedia addirittura scrive: “In questo romanzo Verne anticipa le prime fasi dello storico allunaggio avvenuto realmente oltre 100 anni dopo, il 20 luglio 1969.” Ehm, no, veramente non proprio. Il romanzo si conclude pochi giorni dopo il lancio del proiettile, con una comunicazione dell’osservatorio che ha avvistato il proiettile e scoperto la sua sorte, spoilerata peraltro dal titolo del romanzo che fa da seguito a Dalla Terra alla Luna, ovvero Intorno alla Luna (Autour de la Lune) pubblicato nel 1870. *Intorno* alla luna, non *sulla* luna. Il proiettile, infatti, è entrato nell’orbita della luna e le ruota attorno come un satellite. Non è questo che fanno con l’allunaggio del 1969: al massimo Verne lo anticipa concettualmente, perché non è il primo a raccontare di viaggi sulla luna, ma è uno dei primissimi a parlare della possibilità di raggiungerla grazie al progresso scientifico e tecnologico. Per dire, nell’Orlando furioso (1532) di Ludovico Ariosto, Astolfo va sulla luna con un carro trainato da ippogrifi (per recuperare il senno perduto da Orlando: capite che non è particolarmente realistico). Questo è fantasy. Verne invece è science fiction: lui immagina una tecnologia più avanzata rispetto a quella esistente, ma plausibile in termini scientifici e secondo le leggi del mondo reale.

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Questo è un ippogrifo.

Mentre il primo dei due romanzi (Dalla Terra alla Luna) è interamente ambientato sulla Terra, il secondo (Intorno alla Luna) assume invece il punto dei vista dei tre viaggiatori all’interno del proiettile. Ci sono abbondanti spiegazioni (per quanto non tutte coerenti con le conoscenze scientifiche di oggi) sulla vita dei tre “astronauti” in viaggio verso il satellite: scorte d’acqua e di cibo, un sistema per assorbire l’anidride carbonica e rigenerare ossigeno, illuminazione, riscaldamento (perché nello spazio fa freddo: Verne dice -140°C, in realtà più freddo: Wikipedia dice 3 kelvin, cioè -270°C), attrezzature scientifiche di vario tipo, eccetera. (Faccio notare che non viene MAI neanche accennato come questi tre uomini e gli animali che hanno portato (sì, hanno portato dei cani e dei polli, con l’idea di farli ambientare sulla luna per dare inizio a una sorta di colonizzazione) dicevo, non viene MAI detto come e dove tutti questi esseri viventi facciano la pipì e la cacca nei quattro giorni del viaggio.)
A un certo punto del viaggio, per un problema con l’attrezzatura, i nostri eroi rischiano un’intossicazione da ossigeno. Ma davvero si può morire per troppo ossigeno? L’ho googlato, e la risposta è sì. In condizioni normali non è possibile respirare troppo ossigeno, neanche iperventilando, ma può accadere in situazioni in cui la concentrazione dell’ossigeno è stata artificialmente aumentata. Se l’ossigeno nei polmoni supera la capacità di assorbimento dell’ossigeno del sangue, succede un casino. Non ho capito perché, ma si rischiano danni ai polmoni, al sistema nervoso e alla retina, e poi la morte. Le conseguenze della tossicità dell’ossigeno vengono chiamate anche “effetto Paul Bert” perché il francese Paul Bert (1833 – 1886), esperto di fisiologia della subacquea, è stato il primo a studiare l’argomento. Era anche un politico ed è stato ministro dell’istruzione ed era razzista: la Wikipedia francese riporta diversi brani in cui descrive come i neri siano evidentemente meno intelligenti dei bianchi e persino meno dei cinesi.

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Per stavolta il discorso su Verne si conclude qui, ma credo ci sarà un seguito, perché le cose da dire sono tante.

#61 paraprosdokian, wellerism, garden path sentence, crash blossom

Un paraprosdokian è una figura retorica che consiste nella conclusione a sorpresa di una frase o di un discorso.
Tipicamente la prima parte della frase appare semplice, anche banale, e il lettore o ascoltatore si aspetta una conseguenza ovvia. Invece l’ultima parte della frase è sorprendente, inaspettata, e spesso cambia il significato della prima parte: costringe a reinterpretarla, specialmente giocando sul doppio senso di qualche parola. Questa violazione delle aspettative ha in genere un effetto comico, e per questo il paraprosdokian è molto usato nelle commedie e nella satira.
Para viene dal greco παρά (presso, accanto, a lato, oltre,…), usato come prefisso con il significato di vicinanza spaziale o somiglianza, affinità, o anche deviazione, alterazione, contrapposizione (ad esempio paramedico, paranormale,… Invece parole come paracadute e parasole sono formate da para- derivato dal verbo parare, che indica riparare, proteggere). Prosdokia (προσδοκία) significa aspettativa. In antichi testi greci si trova l’espressione “para prosdokia”, cioè contrario alle aspettative o inaspettato, ma il termine paraprosdokian è di recente formazione (probabilmente fine Ottocento) e, nonostante sia piuttosto diffuso in ambito anglosassone, non compare ancora sui dizionari cartacei di lingua inglese.
Per imparare questa parola impronunciabile ho trovato un video utilissimo: How to Pronounce Paraprosdokian (analoga pronuncia anche qui).

Alcuni esempi di paraprosdokian:
“I’d like to die peacefully in my sleep like my grandfather… not screaming in terror like the passengers on his bus.”
“I once shot an elephant in my pajamas. How he got in my pajamas I don’t know.” (Groucho Marx)
“Of course I agree with you… Now we’re both wrong.”
“Any man who hates children and animals… can’t be all bad.” (W. C. Fields)
“If I could say a few words… I would be a better public speaker.” (Homer Simpson)

Penso che si possano considerare paraprosdokian anche:
Tra il dire e il fare c’è di mezzo “e il”. (Credo che sia di Alessandro Bergonzoni ma è cantata anche da Elio e le Storie Tese in “Carro”).
E ancora il mitico Homer Simpson agli alieni: “Non potete mangiarmi! Ho moglie e figli… mangiate loro!”
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Analogo al paraprosdokian è il wellerismo, in cui un noto proverbio o un’espressione comune viene attribuito, a scopo comico, a un personaggio reale o immaginario. In questo modo il significato originario dell’affermazione viene stravolto, oppure interpretato in senso letterale.
Il termine deriva da Sam Weller, personaggio de Il circolo Pickwick (The Posthumous Papers of the Pickwick Club), il primo romanzo di Charles Dickens, del 1837.
Esempi di wellerismi detti da Sam Weller nel romanzo:
“Prima gli affari, e i piaceri dopo, come disse il re Riccardo III quando ammazzò quell’altro re nella Torre, prima di strangolare i bambini.”
“Addoloratissimo di recare un qualunque disturbo, signora, come disse il brigante alla vecchia signora quando la mise sul fuoco.”
“Morte alla malinconia, come disse il ragazzo quando morì la maestra di scuola.”
“Io non feci che assistere la natura, come disse il dottore alla mamma del bambino, dopo averlo mandato all’altro mondo con un salasso.”
“Mille scuse se interrompo codesta bella conversazione, come disse il re quando sciolse il parlamento.”

Una “garden path sentence” è una frase “ingannevole”: il lettore ne interpreta l’inizio in un modo, ma la continuazione della frase lo costringe a tornare indietro e a reinterpretarla diversamente.
Un esempio: “The author wrote the novel was likely to be a best-seller.” L’interpretazione iniziale è: “The author (who) wrote the novel…” ma il senso corretto è: “The author wrote (that) the novel was likely to be a best-seller.”
Questo succede perché, via via che leggiamo una frase, facciamo una sorta di analisi logica, cioè attribuiamo automaticamente ad ogni parola il valore di soggetto, verbo, complemento, ecc. Questo ci permette di capire la struttura, e il senso, della frase.
Leggendo una garden path sentence, a un certo punto arriva una parola che non può essere incorporata nella struttura ipotizzata fino a quel momento. La discrepanza porta il lettore a riconsiderare la frase e a correggere la prima interpretazione. Il meccanismo si basa sull’ambiguità (semantica o sintattica) di una o più parole, che si prestano a diverse interpretazioni.

Il nome “garden path” viene dall’espressione “to lead (someone) down the garden path”, cioè fuorviare, trarre in inganno, raggirare.

Un esempio divertente di garden path sentence e di ambiguità sintattica: Time flies like an arrow; fruit flies like a banana.
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Leggere e capire correttamente la prima metà della frase è molto semplice anche perché si tratta di un’espressione molto comune: “il tempo vola”, traduzione approssimativa del latino “tempus fugit”. Il paragone “come una freccia” è frequente in inglese per sottolineare la velocità del passare del tempo.
Leggendo la seconda metà della frase, ci si aspetta la stessa struttura: “fruit” sarebbe sostantivo e soggetto, “flies” verbo e “like” avverbio. Ma l’assurdità del senso che ne deriva (“La frutta vola come una banana”?!) porta a rivalutare la frase, e allora “fruit” diventa sostantivo aggettivante, “flies” sostantivo plurale e soggetto, e “like” verbo (“I moscerini della frutta amano una banana”).

Una fruit fly è un moscerino della frutta o drosofila, un insetto molto studiato nella ricerca biologica e soprattutto genetica, perché è facile da allevare in laboratorio, si riproduce molto e in fretta (una femmina può deporre fino a 600 uova in dieci giorni), ha solo quattro paia di cromosomi, il suo genoma è stato interamente sequenziato e le mutazioni genetiche nella specie sono molto frequenti.
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Dopo tutto questo, Wikipedia se ne esce con un “Da un punto di vista genetico l’uomo e il moscerino della frutta sono abbastanza simili”, che è abbastanza spiazzante, e continua: “La Drosophila viene usata come modello genetico per varie malattie umane, inclusi i disturbi neurodegenerativi come la malattia di Parkinson, la corea di Huntington e la malattia di Alzheimer. La mosca viene utilizzata anche per studiare il meccanismo biologico del sistema immunitario, del diabete, del cancro, dell’intelligenza, dell’invecchiamento e persino dell’abuso di sostanze stupefacenti.”
Mah.

Le garden path sentences, come le ambiguità sintattiche in genere, sono rare nella lingua parlata perché la prosodia (intonazione, accento, pause, ecc.) di solito elimina gli eventuali dubbi.
Questo tipo di ambiguità è inoltre più comune nelle lingue isolanti come l’inglese, dove la morfologia è poca o nulla, che nelle lingue flessive come l’italiano, in cui la funzione grammaticale è indicata dalle modificazioni morfologiche delle parole, cioè declinazioni e coniugazioni tendono a chiarire i rapporti logici tra le parole.
In inglese, poi, molto spesso una stessa parola, invariata, può essere un sostantivo o un aggettivo, maschile o femminile, o un verbo che si riferisce a diversi tempi o persone, e in più i sostantivi svolgono spesso la funzione di aggettivi nei confronti di altri sostantivi (mentre in italiano una simile relazione verrebbe espressa attraverso preposizioni). Ad esempio “fruit flies”: in italiano c’è una bella differenza tra “moscerino della frutta” e “la frutta vola”.

L’ambiguità sintattica di solito non costituisce un ostacolo per gli esseri umani, che riescono a ricostruire il significato corretto dal contesto, ma è un grosso problema per i computer, che hanno notoriamente difficoltà a capire le lingue naturali (vedi le traduzioni assurde di Google Translate).

Da Wikipedia: “Al contrario dell’ambiguità semantica, che nasce dalla gamma di significati che una parola può denotare, l’ambiguità sintattica deriva dalla relazione tra le parole e le componenti sintattiche di una frase. Quando un lettore può ragionevolmente interpretare la stessa frase mediante più di una struttura sintattica, il testo è ambiguo e soddisfa la definizione di ambiguità sintattica.”

Ad esempio: “flying planes can be dangerous“, in cui il soggetto di “can be dangerous” può essere “planes” (aerei in volo) oppure “flying” (far volare, pilotare aerei).
Altri esempi: “Loro guardano un uomo con il cannocchiale” (il cannocchiale ce l’hanno loro o l’uomo?); oppure “una vecchia legge la regola” (che ho trovato in un libro di Tullio De Mauro) si può interpretare come “una donna anziana sta leggendo il regolamento” oppure “una legge antica stabilisce il regolamento riguardo a quella cosa”, e cioè “vecchia” può fungere da soggetto o da aggettivo, “legge” da verbo o soggetto, e infine “la” da articolo o pronome complemento. Un esempio molto simile è “la vecchia porta la sbarra”.
Da “Lola”, canzone dei Kinks del 1970, scritta da Ray Davies (anche le Raincoats ne hanno fatto una cover), che descrive l’incontro romantico tra un ragazzo e questa Lola: “I’m glad I’m a man, and so is Lola”. Può significare: “Lola e io siamo entrambi felici che io sia un uomo”, “Sono felice che Lola e io siamo entrambi uomini” oppure “Sono felice di essere un uomo e anche Lola è felice di essere un uomo”. Il verso è volutamente ambiguo, così come la Lola descritta nella canzone, che “walked like a woman and talked like a man”.

A volte la punteggiatura, rappresentando l’intonazione e le pause della lingua parlata, può eliminare le ambiguità sintattiche, e una stessa frase può assumere diversi significati:
Una donna, senza un uomo, non è niente.
Una donna: senza, un uomo non è niente.

La frase latina ibis redibis non morieris in bello (o ibis redibis numquam peribis) è il responso dato dall’oracolo a un soldato che chiedeva previsioni sulla propria missione in guerra. Ma l’interpretazione è duplice:
– “Ibis, redibis, non morieris in bello” significa “andrai, ritornerai e non morirai in guerra”.
– “Ibis, redibis non, morieris in bello” significa al contrario “andrai, non ritornerai e morirai in guerra”.
“Ibis redibis” si usa, in inglese come in italiano, con il significato di ambiguo, confuso, oscuro o cavilloso, specialmente in riferimento a documenti legali.
(Tra l’altro, “ibis redibis non morieris” è la frase perfetta per uno zerbino! A mo’ di saluto quando si esce di casa, così, senza virgole, dice sempre la verità!)

Crash blossom” è un’espressione recente che indica quei titoli di giornali ambigui, che vengono interpretati in modo completamente diverso da quello voluto, e risultano spesso molto divertenti. L’ambiguità è dovuta al fatto che i titoli di giornale omettono tipicamente articoli, preposizioni, verbo essere, e può risultare difficile riconoscere le giuste funzioni grammaticali delle parole.
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Il nome “crash blossom” deriva dal titolo “Violinist linked to JAL crash blossoms”. Nelle intenzioni, si riferiva al successo di una violinista giapponese, “sbocciata” (blossoms) dopo la morte del padre in un disastro aereo (crash), ma a prima vista la musicista sembra aver a che fare con dei “fiori di schianti” (crash blossoms).

Anche qui il fenomeno è più frequente in inglese (esiste anche un sito che li raccoglie), ma anche in italiano ne abbiamo qualche buon esempio:

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#54 alien hand syndrome

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Okay, la foto di E.T. è fuorviante.

La sindrome della mano aliena è un raro disturbo neurologico. Chi ne è affetto ha una mano (in genere quella non dominante) che si muove indipendentemente dalla sua volontà, in modo autonomo, come se avesse una volontà propria.
I pazienti descrivono la mano come appartenente a un’altra persona, e alcuni le attribuiscono un nome.
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La sindrome della mano aliena si differenzia da altri tipi di movimenti involontari perché le azioni della mano colpita non sono casuali bensì orientate a uno scopo preciso (però ignoto al proprietario della mano stessa). La mano aliena può ad esempio toccare o afferrare oggetti, cercare di picchiare o strangolare il paziente, riempirgli la bocca di cibo, interferire con le azioni dell’altra mano o cercare di danneggiarla in qualche modo. I pazienti non hanno controllo sulla mano aliena oppure riescono a influenzarne i movimenti con grande sforzo.
Non si conosce una cura per questa condizione, ma sembra che si riesca a gestirla dando alla mano aliena qualcosa da fare per tenerla occupata, come tenere un oggetto, ad esempio un bastone quando si cammina. Qualcuno indossa un guanto da forno per limitarne i movimenti.
Le cause non sono del tutto chiare, ma “la sindrome insorge solitamente dopo una separazione chirurgica degli emisferi cerebrali, una procedura a volte utilizzata per alleviare i sintomi più gravi dell’epilessia. Il disturbo può verificarsi anche dopo altri tipi di interventi neurochirurgici, ictus cerebrali, infezioni, aneurismi, tumori o come conseguenza di malattie neurodegenerative come la malattia di Alzheimer e la malattia di Creutzfeldt-Jakob” (da Wikipedia).
Secondo una teoria, la sindrome è il risultato di una disconnessione tra diverse parti del cervello che si occupano di diversi aspetti del controllo dei movimenti corporei. In questo modo, alcune regioni del cervello sono in grado di comandare un movimento, ma senza che altre parti del cervello ne abbiamo coscienza né controllo.

Questa sindrome è stata identificata per la prima volta nel 1909 e da allora sono stati registrati circa 40-50 casi. È invece molto più diffusa nella letteratura e nel cinema. In particolare, ne è affetto il personaggio eponimo di “Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba” (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb), film del 1964 di Stanley Kubrick. Il dottor Stranamore, interpretato da Peter Sellers, è uno scienziato tedesco, ex nazista, in sedia a rotelle, che si occupa dello sviluppo di armi nucleari per il governo statunitense, e lotta regolarmente con il suo braccio destro, il quale sembra molto incline al saluto nazista (video: Peter Sellers fighting against his nazi arm).
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Il film è una commedia nera, che affronta con ironia i grandi temi d’attualità dell’epoca, soprattutto la minaccia della guerra nucleare. È rimasta particolarmente famosa la scena in cui il maggiore “King” Kong, sceso nello scomparto bombe dell’aereo per riparare un guasto, rimane a cavalcioni della bomba mentre questa viene sganciata sul bersaglio “urlando ed agitando il suo cappello da cowboy come se stesse a cavallo di uno stallone ad un rodeo” (Wikipedia). Video: Kong rides the bomb. La scena è stata citata, tra le altre cose, anche in un episodio dei Simpson.
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Una sorta di sindrome della mano aliena si vede anche in Amore folle (Mad Love), film horror del 1935 in cui un pianista perde entrambe le mani in un incidente, ma un chirurgo pazzo gliele sostituisce con quelle di un assassino. Il tizio si accorge poi di non essere più capace di suonare il piano, in compenso è bravissimo a lanciare coltelli.
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Su YouTube si trovano anche interessanti video sulla sindrome della mano aliena (tipo questo), in cui si vedono persone che si auto-prendono a schiaffi, palpano sconosciuti oppure cercano involontariamente di accoltellare gli astanti. A guardare queste cose, YouTube mi consiglia tutta una serie di video su malattie rare, anomalie assurde, e simili amenità, come ad esempio: “The Boy Whose Skin Fell Off”, “Growing Up Without A Face”, “My Face is Eating Me Alive”, “Worms Crawling Under My Skin” (quest’ultimo fa particolarmente schifo).

E così ho scoperto anche la sindrome dell’accento straniero: una rarissima disfunzione neurologica a causa della quale una persona, da un giorno all’altro, si mette a parlare con un accento straniero. È di solito conseguenza di ictus o trauma cranico. In realtà, la causa è un danno cerebrale che colpisce parti del cervello che controllano alcune funzioni linguistiche e provoca alterazioni nell’intonazione e lunghezza dei suoni pronunciati, che di per sé non hanno niente a che fare con uno specifico accento estero, ma la strana parlata che ne deriva appare simile a quella di uno straniero.

#51 fringe

Sto guardando in questo periodo Fringe, serie televisiva andata in onda dal 2008 e conclusa l’anno scorso dopo cinque stagioni.
Tra i creatori c’è J. J. Abrams, uno che ha prodotto, creato e co-creato un sacco di roba, tra film e serie tv. Per me rimane “quello di Lost”.

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Le due J stanno per Jeffrey Jacob, ha 47 anni e ha persino fatto la guest star in un episodio dei Griffin.
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Fringe segue le vicende della “Fringe Division” dell’FBI, che ha sede a Boston, Massachusetts, e si occupa di indagini legate alla fringe science, cioè la scienza di confine (che, ho scoperto, esiste davvero).
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Con fringe science si intende l’insieme di teorie o ricerche scientifiche controverse, “ai confini della corrente principale delle discipline accademiche convenzionalmente riconosciute”. Teorie eterodosse, inusuali, che si allontanano dalle teorie normalmente accettate, che però si basano su metodi o principi scientifici riconosciuti come validi. “Alcune tra le odierne teorie ampiamente condivise (come ad esempio la teoria della deriva dei continenti) vennero classificate al loro apparire come scienza di confine o pseudoscienza”.

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Fringe ha parecchie cose in comune con Lost, a partire dalla prima scena del primo episodio, che si svolge a bordo di un aereo, nel pieno di una forte turbolenza. E il tema dell’aereo (che, di solito, precipita) ricorre altre volte nel corso della serie.
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Finge condivide con Lost anche la passione per le grandi scritte tridimensionali, visioni di gente morta che passeggia, rapporti difficili tra genitori e figli, le musiche di Michael Giacchino, una certa tendenza ai colpi di scena e a suscitare tante domande che, sospetto, non avranno risposte.
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Due cose su Michael Giacchino: statunitense di origini siculo-abruzzesi, nel 2010 ha vinto l’oscar con la colonna sonora di Up della Pixar.

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Fin dal primo episodio incontriamo l’attore ‪Lance Reddick‬, che qui in Fringe interpreta Phillip Broyles, il capo di Olivia, la protagonista. Ma quella faccia inquietante mi era già nota in Lost: era Matthew Abbadon, che compare nella quarta e quinta stagione. È il tizio losco che fa visita a Hurley in manicomio, lo stesso che spingeva John Locke sulla sedia a rotelle e gli consigliava di andare a fare un walkabout in Australia, e lo stesso che ha reclutato Naomi e la sua squadra (Daniel Faraday, Miles Straume, Charlotte Lewis e il pilota Frank Lapidus) per andare sull’isola. Ancora non ho capito chi era e per chi lavorava, in ogni caso trasmetteva una certa inquietudine.

La protagonista di Fringe, l’agente Olivia Dunham, è interpretata da ‪Anna Torv‬, attrice australiana, che tra l’altro è stata brevemente sposata con l’attore Mark Valley, quello che nella prima stagione di Fringe fa John Scott, collega e amante di Olivia.
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Un altro bel personaggio è Charlie Francis, superiore di Olivia. L’attore è Kirk Acevedo, statunitense di origini portoricane e cinesi, che era anche in La sottile linea rossa. Mezzo spoiler: Kirk Acevedo nel 2009 aveva annunciato sulla sua pagina Facebook di essere stato licenziato da Fringe. E sappiamo bene che al licenziamento di un attore corrisponde, per il suo personaggio nella serie, una brutta fine…
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E poi c’è la Massive Dynamic, superpotente multinazionale, il cui logo è dappertutto (misteriosità, presenza invasiva e ricerche sperimentali eticamente discutibili: mi ricorda un po’ il progetto Dharma…). Lo slogan della Massive Dynamic è “What Don’t We Do?”. Ha anche un “vero” sito ufficiale, lanciato in occasione dell’inizio della serie. Si può anche inviargli il curriculum (lo farò sicuramente!!).
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Il capo della Massive Dynamic è William Bell, interpretato da Leonard Nimoy, meglio conosciuto come Spock, il vulcaniano di Star Trek. Senza le orecchie a punta è irriconoscibile.
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La vicecapo della Massive Dynamic è Nina Sharp, interpretata da ‪Blair Brown‬, che era la co-protagonista in Stati di allucinazione (Altered States) con William Hurt, film di Ken Russell del 1980.

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Il film è ispirato alla vita e alle ricerche di John Lilly, che in particolare si è dedicato allo studio della deprivazione sensoriale e a questo scopo, alla fine degli anni cinquanta, ha inventato la vasca di deprivazione sensoriale (i‪solation tank‬) come strumento per ridurre al minimo gli stimoli esterni. John Lilly stesso rimaneva per ore chiuso dentro questa vasca, sospeso nell’acqua satura di sale e mantenuta a temperatura corporea.
La vasca di deprivazione sensoriale è citata anche in un epidosio dei Simpson (Fate largo a Lisa – Make Room for Lisa).
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Tornando a Fringe: per tutta la prima stagione, Olivia viene ripetutamente messa in una vasca di deprivazione sensoriale da Walter Bishop, adorabile scienziato pazzo, che ha problemi di memoria, una passione per le sostanze psicotrope, e riesce a pensare al cibo durante le autopsie più schifose.
Da Wikipedia: “Walter è considerato da molti fan come un sex symbol fattone.” (!).

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Quando Walter ha bisogno di una combinazione per un lucchetto usa le cifre del Pi greco (3,14159…) e per addormentarsi elenca ad alta voce i numeri della serie di Fibonacci (1 1 2 3 5 8 13 21 34 55 89 144 233 377 610 987 1597 2584 4181 6765…).

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Il figlio di Walter, Peter Bishop, è ‪Joshua Jackson‬, direttamente da Dawson’s Creek.

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Durante la sigla iniziale di Fringe, dovrebbe comparire, seminascosta, la scritta “Observers are here” (io non sono mai riuscita a vederla!). Gli osservatori sono dei tizi bizzarri che sembrano usciti dai quadri di Magritte, scrivono strano, usano una gran quantità di “aggeggi fantaminchiosi” (cit.) e amano il cibo piccante.

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Quella frase (con la sua struttura soggetto – verbo essere – complemento di stato in luogo) mi ricorda tanto “The truth is out there” di x-filiana memoria.
In effetti le somiglianze tra Fringe e X-Files sono numerose, in bilico tra la citazione e il plagio. Qualcuno (tipo qui e qui) ha provato a elencare i riferimenti episodio per episodio.
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Nel primo episodio della seconda stagione di Fringe c’è un preciso omaggio a X-Files: su un televisore si vede una breve scena da “Dreamland”, quarto episodio della sesta stagione di X-Files, in cui si distingue Mulder.
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E poi c’è la questione dei glifi: nel corso di ogni episodio, appaiono di tanto in tanto dei fotogrammi con diverse figure, su fondo nero. Immagini a caso? No, è un enigma da risolvere: un codice, o meglio un cifrario a sostituzione, decifrato da Julian Sanchez nel 2009. Ogni figura sta per una lettera dell’alfabeto, e la sequenza delle figure all’interno di un singolo episodio equivale a una parola.

Pare che nell’edizione italiana questi glifi siano stati per lo più tagliati nel montaggio.
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La storia dei glifi dev’essere piaciuta molto: ad esempio un tizio ci ha fatto un font e una tizia se li è disegnati sulle unghie.
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#30 lewis and clark

Nell’episodio The Weekend di Homeland (s01e07) Carrie Mathison racconta come da bambina, insieme alla sorella, giocasse a fare “Lewis and Clark”:

“There’s actually a really beautiful waterfall out there. My sister and I would hike to it every day in the summer, take our compasses and notebooks, play Lewis and Clark.”
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“So were you Lewis or Clark?”
“Oh, had to be Lewis.”
“Why?”
“I like the name Meriwether.”

Meriwether, raramente usato come nome di battesimo, è più che altro un cognome. Nel caso di Lewis, Meriwether era il cognome della madre, Lucy Meriwether.
Ma ci sono almeno un altro paio di ragioni per cui Carrie Mathison preferiva il ruolo di Lewis: era il capo, e probabilmente soffriva di disturbo bipolare.

La spedizione di Lewis e Clark è un pezzo di storia americana che io però ignoravo: “condotta da Meriwether Lewis e William Clark, fu la prima spedizione statunitense a raggiungere la costa pacifica via terra.

La spedizione fu commissionata dal presidente Thomas Jefferson, poco dopo il cosiddetto “acquisto della Louisiana” (Louisiana Purchase) nel 1803, con cui gli Stati Uniti acquisirono dai francesi un vasto territorio conosciuto all’epoca come Louisiana francese (comprendeva gli odierni stati: Arkansas, Missouri, Iowa, Oklahoma, Kansas, Nebraska, Dakota del Sud, Wyoming, e parte di Minnesota, Dakota del Nord, Nuovo Messico, Texas, Montana, Colorado e Louisiana).
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Gli obiettivi della spedizione erano esplorare e mappare i territori occidentali, a partire dalla stessa Louisiana, ma anche studiare piante, animali selvatici, e le tribù indiane.

Il gruppo, chiamato Corps of Discovery, era formato da una cinquantina di volontari e condotto dal capitano Meriwether Lewis e dal suo amico e secondo luogotenente Willam Clark.

Partirono nel maggio del 1804 da St. Louis, navigando sul fiume Mississippi con un barcone carico di provviste e medicinali. Clark era più propenso a rimanere a bordo a disegnare mappe (era un ottimo cartografo) mentre Lewis se ne andava in giro studiando rocce, piante e animali. In tutto furono osservate e catalogate alcune centinaia di specie animali e vegetali sconosciute sulla costa orientale, ad esempio coyote, antilopi, alci, cani della prateria. Un esemplare di quest’ultimo fu recapitato al presidente Jefferson, dentro a una scatola. Alcune delle specie scoperte furono poi chiamate in omaggio a Lewis, ad esempio il genere Lewisia, una pianta molto carina che cresce bene anche da noi ed è piuttosto facile da coltivare. Lo so perché ne possiedo una, sul balcone. 🙂
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I Corps of Discovery incontrarono durante il viaggio molte tribù di nativi americani: Oto, Missouri, Sioux Yankton, Sioux Teton, ecc. Gli incontri potevano diventare conflittuali, ma spesso il confronto era pacifico: parlavano e si scambiavano doni, in particolare gli statunitensi regalavano medaglie di pace (‪Indian Peace Medal‬s) A volte gli incontri erano così pacifici che gli indiani offrivano le proprie mogli ai visitatori. Per scopi ricreativi, diciamo. Pare che gli indiani credessero che le donne potessero appropriarsi del potere spirituale di quegli uomini durante l’atto sessuale. Una teoria che i Corps of Discovery sembrano avere apprezzato, a giudicare dall’ampia diffusione di malattie veneree. In ogni caso, per molte delle tribù indigene si trattò del primo contatto con popoli di origine europea, mentre dal punto di vista di Lewis fu l’occasione per un primo studio etnografico e per porre le basi per futuri sviluppi commerciali.
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Durante l’inverno 1804-05 il gruppo si accampò nell’attuale Dakota del Nord. Il cibo scarseggiava e le condizioni meteo erano ostili, ma a salvare la situazione arrivò Sacajawea, una nativa americana, e suo marito Toussaint Charbonneau, commerciante franco-canadese, i quali si unirono alla spedizione. Sacajawea (o Sacagawea) era la sorella del capo-tribù dei Shoshoni. Il suo aiuto fu fondamentale per le traduzioni e la mediazione con le tribù indigene, e anche nella ricerca del cibo.

Nel dicembre 1805 gli esploratori arrivarono al monte Hood, vicino all’oceano, nell’attuale Oregon. Tornarono a St. Louis nel settembre 1806.

Lewis soffrì di depressione e alcolismo, e cinque anni dopo il ritorno dalla spedizione morì per un colpo d’arma da fuoco, probabilmente suicida.
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La storia di Lewis e Clark e Sacajawea deve essere molto importante nell’immaginario americano: le sono stati dedicati francobolli, film, canzoni, toponimi, statue, e anche parte di un episodio dei Simpson (Margical History Tour, stagione 15, episodio 11) in cui Meriwether Lewis e William Clark sono interpretati rispettivamente da Lenny e Carl, mentre Lisa è Sacajawea, sposata con Milhouse (qui un video).

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#17 fiori per algernon

Daniel Keyes non ha scritto molto, ma è famoso Fiori per Algernon. Si tratta in origine di un racconto, pubblicato nel 1959, successivamente ampliato e ripubblicato come romanzo nel 1966, con lo stesso titolo. Ne è stato tratto il film Charly (in italiano I due mondi di Charly), con ‪Cliff Robertson‬ che ha vinto l’Oscar come miglior attore protagonista nel 1968.

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Ho provato a cercare il romanzo in alcune librerie online e non: è quasi sempre non disponibile. Potrebbe essere più facile trovarlo nelle biblioteche. Oppure l’ebook si può scaricare qui. Più diffuso sembra essere il racconto, pubblicato nell’antologia Le meraviglie del possibile di Einaudi.
La trama in breve è questa: Charly, affetto da grave ritardo mentale, viene sottoposto a un’operazione chirurgica sperimentale per accrescere la sua intelligenza. Prima di lui soltanto un topo di nome Algernon ha subìto quel trattamento, e con grande successo. L’esperimento potrebbe però fallire, o avere degli effetti collaterali, o distruggere comunque la vita di Charly.
Vorrei consigliarlo a chiunque. Penso sia perfetto anche per ragazzi. Ecco un commento malinconico che ho trovato su Ibs: “Fiori per Algernon mi commosse tantissimo, avevo 13/14 anni era il 1969 l’anno del primo uomo sulla luna. Fiori per Algernon è come una storia d’amore sfortunata. Quando non ci si riesce mai a trovare sulla stessa lunghezza d’onda. Prima è pronto uno, poi l’altro e poi alla fine restano solo i fiori appassiti. Addio Stellina non ho saputo darti ciò che volevi e mi fa molto male.”

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Fiori per Algernon è citato in un memorabile episodio dei Simpson (stagione 12 episodio 9, HOMEЯ in italiano, HOMЯ o HOMR in originale) in cui Homer scopre che un pastello a cera, che da bambino si era infilato nel naso, si trova ancora conficcato nel suo cervello ed è la causa della sua scarsa intelligenza. Immagine Rimosso il pastello con un intervento chirurgico, Homer diventa un genio: si veste elegante, legge libri, risolve cesti di cubi di Rubik per passare il tempo. Ma l’intelligenza lo rende infelice ed emarginato, e Homer sceglie alla fine di farsi rimettere il pastello dov’era.
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Nel già citato episodio Bad Code (s02e02) di Person of Interest una ragazzina esce dalla biblioteca, dove ha preso in prestito Fiori per Algernon, e scompare. Nell’anniversario della sua scomparsa, per i successivi 16 anni, una copia del libro viene recapitata anonimamente a casa di un signore. Non dico altro perché c’è qualche colpetto di scena carino.
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Da qui in poi, spoiler e riflessioni.

Prima dell’operazione, l’ingenuità fa di Charly una persona amichevole e fiduciosa, e lo induce a presumere che gli altri siano altrettanto buoni. Con grande amarezza si rende poi conto di essere sempre stato maltrattato e deriso, specialmente dai colleghi. All’inizio è fortemente motivato a diventare più intelligente e convinto che in questo modo sarà più amato e rispettato, ma con il graduale aumentare delle sue capacità gli sarà sempre più chiaro che le cose sono molto più complicate di come ci possono sembrare.

Fa ridere e commuovere insieme quando, all’inizio, Charly non riesce neanche a svolgere un esercizio relativamente semplice come percorrere un labirinto mentre Algernon, il topo geniale, raggiunge di corsa il punto d’arrivo. Charly però si appassiona alla competizione e traspare dal diario la frustrazione e la rabbia nel constatare la propria inferiorità nei confronti di questo anomalo rivale: “Lodio cuel topo”, scrive. In realtà si sviluppa uno strano legame tra i due, e Charly si affeziona molto ad Algernon. Al congresso di psicologia, dove Charly e Algernon vengono entrambi messi in mostra come cavie dell’esperimento, Charly trova la situazione insopportabile e riesce a scappare, con il topo in tasca. Professori stimati e dalle brillanti carriere, lì riuniti, si ritrovano a guardare sotto tavoli e sedie alla ricerca di un topo da laboratorio, più intelligente di loro. Wikipedia descrive così l’episodio: “Ad un certo punto, mentre è un genio, Charlie scappa per allontanarsi dall’influenza dei professori Strauss e Nemur, portando con sé Algernon.” Faccio notare che raramente si ha l’occasione di usare l’espressione “mentre è un genio”.
Commuovente sembra l’aggettivo che ricorre più spesso nelle recensioni e nei commenti. Commuovente è la descrizione dell’ambiente familiare problematico della sua infanzia, l’amore impossibile con Alice Kinnian, la malinconia di Charly che seppellisce Algernon in cortile e continua a portargli dei fiori, infine il senso di impotenza di fronte al rapido regredire delle proprie facoltà mentali.

Fiori per Algernon è quel tipo di fantascienza senza astronavi, viaggi nel tempo o robot, che si concentra invece sugli aspetti umani, e solleva una serie di interrogativi e argomenti su cui riflettere, tipo: i metodi e l’etica della scienza, la tensione tra intelletto ed emozioni, soprattutto la problematica delle persone affette da ritardo mentale, il loro ruolo sociale, la loro dignità. Ancora: se fosse davvero possibile aumentare l’intelligenza delle persone, sarebbe lecito farlo? Si può essere geniali e anche felici? Cos’è l’intelligenza e cos’è la felicità, realmente? Dovremmo inseguire la conoscenza o la serenità personale? A cosa può servire parlare venti lingue se non ci rende felici? Che senso ha la nostra vita, o meglio, che senso faremmo meglio ad attribuirle? Tengo per me le ulteriori divagazioni.