La vera vita di Sebastian Knight

Vladimir Nabokov Vera Nabokov specchio macchina da scrivere

Ho aspettato tanto a leggere questo romanzo di Nabokov, perché il titolo non mi ispirava affatto. Forse non avevo nessun interesse a leggere la vita di Sebastian Knight. Ma il libro delude in pieno le aspettative suscitate dal titolo, e di Sebastian Knight si parla tanto ma si dice davvero poco: la vera storia al centro dell’opera è quella del fratellastro di Sebastian che, dopo la morte di quest’ultimo, si dedica alle ricerche per scriverne una biografia. Ricerche appassionate e disperate quanto inconcludenti: il narratore segue per lo più delle piste false, ingannevoli o futili, che non lo portano da nessuna parte. È una storia di deviazioni, sbagli e fraintendimenti, mistificazioni. Lungo questo viaggio scopriamo, in piccola parte, la vita di Sebastian, geniale scrittore morto in giovane età, e, in dose ben maggiore, i pensieri, le impressioni, i sentimenti, e le peripezie del narratore. Un narratore di cui, peraltro, non sappiamo niente: mentre il nome del fratello appare fin dalla copertina, quello del narratore non viene mai esplicitato (soltanto una volta viene chiamato “V.”).

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In definitiva, lo scrittore (Nabokov) scrive un romanzo che sarebbe, nella finzione letteraria, la biografia che un autore (il fratellastro, V.) ha scritto su un noto scrittore (Sebastian Knight). La biografia, tra l’altro, contiene ampie citazioni da un romanzo di Sebastian, Oggetti smarriti, che è la «sua opera più autobiografica». Inoltre V. scrive per confutare un’altra biografia di Sebastian, La tragedia di Sebastian Knight di Mr. Goodman, a suo parere inesatta e disonesta. Mi ha fatto pensare a un infinito gioco di specchi, o alle matrioske. Il libro stesso, ripensandoci dopo averlo concluso, ricorda parecchio l’ultimo romanzo di Sebastian, L’asfodelo incerto («Il tema del libro è semplice: un uomo sta morendo»). Inoltre ho letto qui che questo libro viene spesso definito una “detective story”, ma “scritta alla maniera di Nabokov, e cioè ironicamente capovolta”, cosa che ricorda da vicino La sfaccettatura prismatica, il primo romanzo di Sebastian, descritto come «un’amena parodia dello scenario di un racconto poliziesco» («a rollicking parody of the setting of a detective tale»). Il narratore, infatti, riassume e commenta i libri di Sebastian, dei quali troviamo, all’interno della narrazione, numerose citazioni.

Ho fatto uno schemino per semplificarvi la vita:

schemino

Ma cos’è un asfodelo?

Asfodèlo o asfòdelo, anticamente chiamato asfodillo, dal greco ἀσϕόδελος, è una pianta del genere Asphodelus, della famiglia delle liliacee, che vive nei prati incolti e soleggiati.
Probabilmente a causa del colore pallido dei fiori, l’asfodelo fu associato dagli antichi greci alla morte e all’oltretomba: “secondo Omero (cfr. Odissea XI, 539, 573), le ombre dei morti si aggirano su prati di asfodelo” (Treccani). E il tema della morte è centrale ne L’asfodelo incerto, come del resto la morte di Sebastian incombe per tutto questo libro di Nabokov.

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Asfodeli

Il personaggio di Sebastian presenta diverse caratteristiche in comune con il suo autore Nabokov, come ad esempio l’abitudine di dettare ad alta voce alla propria amata che batte a macchina (Nabokov lo faceva con la moglie Vera), l’ossessione per le parole, il russo come lingua madre e l’ostinazione a scrivere nella lingua del paese di adozione, l’inglese. Entrambi sono nati nel 1899 in Russia e, dopo essere emigrati nel periodo della rivoluzione, hanno studiato a Cambridge.
D’altra parte, credo che anche il narratore abbia parecchio in comune con lui, a partire dall’iniziale: V. come Vladimir. Entrambi, Nabokov e V., vivono a Parigi (Nabokov non si era ancora trasferito negli Stati Uniti all’epoca). Come dicevo, un gioco di specchi. E anche Nabokov aveva un fratello che iniziava per S.: Sergei (di cui ho parlato qui. Sergei, come Sebastian, è morto giovane, ma dopo che il libro fu scritto). Come V. e Sebastian, anche Vladimir e Sergei si erano forse allontanati e persi di vista. Proprio il tema dello specchio e del doppio, che ricorre in Nabokov, potrebbe derivare dal rapporto di affinità e contrapposizione col fratello. Ho anche letto (qui) che Sebastian, come Sergei, potrebbe essere gay, ma onestamente non mi sembra.

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L’effetto tipo tunnel senza fine creato da due specchi paralleli ha un nome e si chiama “Infinity mirror”.

Nel brano che ho proposto qui, si dice che Sebastian «faceva quello che io penso nessun altro scrittore abbia mai fatto – ricopiava con la sua calligrafia obliqua […] il foglio già battuto, e poi lo dettava da capo». Non ho trovato informazioni in proposito, ma sono pronta a scommettere che Nabokov facesse lo stesso (anche perché gli piace l’ironia e prendere per il culo il lettore). Infine Nabokov, come sempre nelle sue opere, dissemina dettagli di se stesso e delle proprie passioni per tutto il libro: gli scacchi e le farfalle compaiono di sfuggita, e chissà quante altre cose che non ho individuato. Tra l’altro, il cognome di Sebastian è, in inglese, il cavallo degli scacchi (knight), mentre il cognome di Clare (bishop) è l’alfiere.

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Nel caso vi stiate chiedendo come si chiamano i pezzi degli scacchi in inglese.

Nel libro, i fatti sono presentati dal punto di vista del narratore e delle sue ricerche ma grossomodo nell’ordine cronologico della vita di Sebastian. L’ultimo capitolo, che tratta della sua morte, è dunque la conclusione lineare della sua storia ma rappresenta una sorta di flashback per il narratore, che ha vissuto quel momento prima di intraprendere le ricerche raccontate nel resto del libro. Quest’ultimo capitolo è, per me, un capolavoro, quasi un trucco di magia: dà un affanno sconfinato, è emozionante, e – niente spoiler, ma sappiate che Nabokov vi trolla fino all’ultimo.

 

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Vladimir Nabokov (nello specchio!) detta e Vera Nabokov scrive a macchina.

A differenza di altre sue opere, come Invito a una decapitazione di cui avevo parlato qui, si legge con facilità, ma ci vuole un po’ più di attenzione per cogliere gli “strati” meno espliciti. Questo è un libro che ha un meccanismo possente, complesso e bellissimo, e, come qualsiasi cosa di Nabokov, è scritto meravigliosamente.

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Quanto ci piacciono i giochi di specchi.

Un ultimo fun fact: ho letto qui che i Marlene Kuntz hanno scritto una canzone ispirata a un passaggio di questo libro.

#108 parole “intraducibili”: emozioni

Tiffany Watt Smith si occupa, tra le altre cose, di studiare e fare ricerca sulle emozioni e sulla storia delle emozioni. Sull’argomento ha scritto, nel 2015, The Book of Human Emotions, in cui riporta 154 tra neologismi e parole in varie lingue del mondo che descrivono particolari emozioni, spesso prive di equivalenti in inglese o in italiano.
C’è chi si lascia prendere la mano e sostiene che i coreani e gli scandinavi vivono emozioni diverse perché le loro lingue danno forma in modo diverso al loro emozionarsi (ne parlerò nel prossimo post), ma, in ogni caso, le stranezze linguistiche ci piacciono, gli elenchi ci entusiasmano; ecco dunque cinque delle parole “intraducibili” trattate nel sopracitato libro.

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Tiffany Watt Smith

Awumbuk

Nella lingua del popolo Baining della Papua Nuova Guinea, awumbuk si riferisce alla malinconia e al senso di vuoto che si prova quando gli ospiti che ci hanno fatto visita sono andati via.

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Eccola lì, la Papua Nuova Guinea.

L’appel du vide

“Il richiamo del vuoto”, in francese, è il pensiero o l’impulso di lanciarsi da una grande altezza, di buttarsi sulle rotaie del treno, o di girare il volante verso il precipizio oltre una scogliera o contro un ostacolo. In psicologia è chiamato anche High Place Phenomenon perché avviene perlopiù in luoghi sopraelevati, ma si tratta in generale del pensiero, improvviso e involontario, di un comportamento autodistruttivo. Non è, come si potrebbe pensare, un istinto suicida, ma è una sensazione correlata alla paura e all’istinto di sopravvivenza.

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L’appel du vide illustrato da Marija Tiurina

Circa due anni e mezzo fa avevo parlato della serie di illustrazione dal titolo Found in Translation di Anjana Iyer. Non è la sola ad aver tentato una rappresentazione visiva di parole “intraducibili”: anche Marija Tiurina ne ha illustrate quattordici, tra cui alcune per le emozioni.

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Marija Tiurina, con un gatto.

Basorexia

La basorexia è la pulsione, il desiderio urgente e irrefrenabile di baciare qualcuno.
Non ho trovato spiegazioni sulla sua etimologia (se non che deriverebbe dal francese “baiser”, “bacio”), ma io azzarderei che deriva dal latino basium, a sua volta di origine incerta e controversa, a cui è aggiunto il greco ὄρεξις (órexis) che significa desiderio, voglia, appetito o fame, dal quale viene il suffisso italiano -oressìa, usato in medicina in relazione all’appetito e all’alimentazione (anoressìa, disoressia, licoressìa, paroressìa, iperoressìa, ortoressìa).

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La foto di Alfred Eisenstaedt

Nell’arte di tutti i tempi ci sono meravigliose opere che ritraggono baci, ma tra tutte mi è venuta in mente la celebre fotografia del marinaio e l’infermiera a Times Square, scattata il 14 agosto 1945 dopo l’annuncio della resa del Giappone (è il VJ Day o Victory Over Japan Day). Esistono in realtà almeno due foto: V-J Day in Times Square, meglio conosciuta come The Kiss di Alfred Eisenstaedt, pubblicata su Life, e un’altra, che ritrae lo stesso bacio da una differente angolazione, scattata da Victor Jorgensen e pubblicata sul New York Times.
La seconda è forse meno interessante dal punto di vista artistico, ma siccome Victor Jorgensen era un fotografo della marina americana in servizio, la foto appartiene al governo federale statunitense ed è rilasciata in pubblico dominio, e dunque l’immagine è più diffusa. Al contrario, la foto di Alfred Eisenstaedt, più bella, è protetta da copyright e il fotografo si è arricchito per ogni riproduzione.
Le facce dei due protagonisti del bacio non sono ben visibili, e negli anni parecchie persone hanno proclamato di essere il marinaio o l’infermiera. Tuttora ci sono dubbi sulle loro reali identità. Dibattuta è anche la storia dietro quel bacio: spontaneo o pianificato? Gioia patriottica festosamente condivisa oppure coercizione e slinguazzata indesiderata? Chissà.

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La foto di Victor Jorgensen

Torschlusspanik

Il “panico del cancello chiuso” è, in tedesco, l’ansia del tempo che passa troppo in fretta al confronto delle cose che dovremmo o vorremmo fare. Può essere il “ticchettio dell’orologio biologico” di una donna che ha superato i trenta e non ha figli, la “crisi di mezza età” di chi guarda avanti e vede che la vecchiaia è in arrivo, l’angoscia per le occasioni che stiamo perdendo, l’ansia per la deadline che si avvicina e ancora abbiamo troppo lavoro da fare.

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Il mio moroso vive attualmente in costante Torschlusspanik perché il suo videogioco deve uscire in autunno e non sa se riuscirà a infilarci tutte le cose fighissime che ha in testa.

Torschlusspanik (o Torschlußpanik: della lettera Eszett avevo parlato qui) è composta da Tor, cancello o portone; Schluss, chiusura o conclusione; Panik, panico.
La parola ha origine medievale, quando i castelli chiudevano i cancelli ogni sera per motivi di sicurezza oppure per prepararsi a un attacco nemico (ho trovato entrambe le versioni): non era auspicabile rimanere chiusi fuori e gli abitanti avevano l’ansia di affrettarsi a rientrare prima della chiusura.
I tedeschi usano l’espressione «Torschlusspanik ist ein schlechter Ratgeber» («Il Torschlusspanik è un cattivo consigliere») per ricordare che la fretta, l’ansia, l’impulsività di fare qualcosa all’ultimo minuto, non creano le condizioni per le decisioni migliori.

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Il Torschlusspanik illustrato da Marija Tiurina

Matutolypea

Parecchio diffusa sul web di lingua inglese ma assente nei veri dizionari, matutolypea si riferisce allo svegliarsi di cattivo umore. Non si sa chi l’abbia coniata, ma è un miscuglio di latino e greco: matuto, da Mater Matuta che, nella mitologia romana, era la dea del Mattino e protettrice delle nascite (dal suo nome deriva l’italiano mattina), e il greco λύπη (lýpi), cioè dolore, sofferenza, tristezza o infelicità. Qui la pronuncia.

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Mater Matuta

E continuiamo nel prossimo post perché questo sta diventando troppo lungo. See you soon!


 

Age-otori, cafuné, culaccino, friolero, hanyauku, mamihlapinatapai, ohrwurm, pochemuchka, tingo, tsundoku, utepils: per gli appassionati di “intraducibili”, si è parlato di queste parole qui!

#107 susanna e i vecchioni

Susanna è una giovane donna, straordinariamente bella e molto religiosa, sposata con Ioakìm.
Due anziani signori, molto rispettati nel paese, che frequentano abitualmente la casa di Ioakìm e vedono spesso Susanna mentre passeggia nell’ampio giardino dell’abitazione, sono entrambi attratti dalla sua bellezza e coltivano fantasie lussuriose su di lei: all’inizio nessuno dei due osa confessare all’amico questa folle passione, ma poi ne parlano e diventano complici. In una calda giornata estiva si appostano, nascosti, nel giardino e la spiano. Appena Susanna rimane sola, i due arrapati corrono da lei e le propongono di abbandonarsi con loro ad attività erotiche e licenziose. La minacciano, nel caso si rifiutasse, di raccontare pubblicamente di averla vista mentre svolgeva attività di quel tipo con un giovane amante. La pia e casta Susanna è disperata ma non cede ai due vecchi porci, che mettono subito in atto la minaccia.
Tutti stentano a crederci, perché Susanna è una brava ragazza, ma siccome siamo nella Babilonia del VI secolo a.C., un’accusa di adulterio è piuttosto grave e si finisce in tribunale. Gli anziani vengono creduti, e Susanna è condannata a morte. Allora si rivolge a dio, il quale ovviamente ha visto tutto e sa la verità.
A questo punto si fa avanti Daniele, che è praticamente un ragazzino dotato di capacità profetiche. Daniele parla al popolo: «Siete così stolti…? … Tornate al tribunale, perché costoro hanno deposto il falso contro di lei». Il popolo gli crede sulla parola. Dopo un interrogatorio più accurato, e vagamente intimidatorio («la tua menzogna ti ricadrà sulla testa! Ecco l’angelo di Dio ti aspetta con la spada in mano per spaccarti in due e così farti morire!»), la verità salta fuori e i due vecchi dissoluti vengono condannati a morte e dunque uccisi. Il racconto si conclude in un’atmosfera di gioia, riconciliazioni e festeggiamenti, con il commento “In quel giorno fu salvato il sangue innocente”.

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Susanna e i vecchioni (1649-1650) di Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino (1591-1666).

Il racconto si trova nell’Antico Testamento, al capitolo 13 del Libro di Daniele (da alcuni considerato apocrifo o deuterocanonico).
Il “lieto fine” (l’esecuzione di due esseri umani non mi sembra comunque lietissima) manda un messaggio molto chiaro: la virtù viene sempre ricompensata mentre il peccato viene sempre punito, e anche se il sistema della giustizia umana può commettere errori, alla fine prevale sempre la giustizia divina che per definizione non sbaglia un colpo. Più in generale, la storia simboleggia la salvezza finale dei veri credenti.

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L’episodio rappresentato in un manoscritto bizantino.

La storia di Susanna (o Shoshana, in ebraico) ha nei secoli stimolato la fantasia degli artisti, che l’hanno rielaborata in poesie, opere musicali, dipinti. In particolare, decine di pittori hanno scelto di raffigurare il momento in cui i due zozzoni sorprendono Susanna da sola. Ho dimenticato di specificare che la virtuosa Susanna, credendosi sola nel giardino, si stava facendo il bagno, ed era nuda. I pittori colgono dunque l’occasione di rappresentare la virtù che non cede alle tentazioni ma anche un nudo femminile (circondato da due vecchi bavosi). Il titolo tradizionale di questo tema iconografico è Susanna e i vecchioni (Susanna and the Elders).

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Susanna e i vecchioni del fiammingo (credo) Jan Matsys (1510–1575).

L’entusiasmante differenza tra diffamazione e calunnia

Se fosse accaduto nella nostra attuale società, l’episodio di Susanna sarebbe un esempio di diffamazione: i vecchioni hanno comunicato a più persone una diceria che ha offeso la reputazione di Susanna (oggi, da noi, tradire il marito non è una cosa carina, ma non è un reato). Siccome invece in quel contesto l’adulterio era un crimine, punibile addirittura con la pena di morte, gli anziani hanno commesso una calunnia: sapendo che Susanna era innocente, l’hanno incolpata falsamente di un reato.
(Ringraziamo la mia mamma per la spiegazione).

Sexual harassment nell’Antico Testamento

Il comportamento dei vecchioni è, soprattutto, un esempio di sexual harassment.

Sexual harassment is bullying or coercion of a sexual nature, or the unwelcome or inappropriate promise of rewards in exchange for sexual favors.

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Sexual Harassment Panda, da South Park.

Ho trovato un articolo che oltre a raccontare e ad approfondire il racconto di Susanna, le origini del suo testo e le opere derivate, mette in dubbio la celebre “castità” di Susanna, chiedendosi: ma Susanna, non si era accorta che quei due bavosi la guardavano sempre? Con questo suo passeggiare quotidianamente in giardino, non è che faceva un po’ la civetta? E poi, non gliel’ha data perché è fedele al marito oppure perché erano due vecchi schifosi? Se si fosse trattato di un avvenente giovanotto, ci sarebbe stata?
Che è un po’ come quando si dice di una vittima di stupro: se indossava una minigonna ed era molto truccata, e magari gli ha pure sorriso, avrebbe dovuto aspettarselo, se l’è cercata, e in fondo era quello che voleva (che è una forma di victim blaming).

Victim blaming occurs when the victim of a crime or any wrongful act is held entirely or partially responsible for the harm that befell them.

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Ma non divaghiamo.

 

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La pudica Susanna si copre il décolleté mentre i due anziani cercano di convincerla gesticolando, in un manoscritto medievale.

La storia di Susanna è un tema iconografico ricorrente a partire dall’epoca delle catacombe. Riporto solo alcune opere.

Il Tintoretto ha dipinto una formosa Susanna, spiata dai due vecchi nascosti dietro una siepe in arditissimo scorcio prospettico.

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Susanna e i vecchioni (1557) di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (1519-1594).

Artemisia Gentileschi ha rappresentato l’episodio in almeno tre dipinti (del 1610, 1611, e 1649).

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Susanna e i vecchioni (1610) di Artemisia Gentileschi (1593-1653).

Hayez si è lasciato prendere dal nudo e si è dimenticato i vecchioni.

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Susanna al bagno (1850) di Francesco Hayez (1791-1882).

L’americano Thomas Hart Benton ha dipinto una moderna Susanna nel 1938, che scandalosamente mette in mostra i peli pubici (nell’arte più tradizionale i peli pubici non esistono: pensate alla Nascita di Venere di Botticelli, o alla Creazione di Adamo di Michelangelo. Che io sappia, non ci sono eccezioni. Qualcuno sa trovare un pube peloso nell’arte prima dell’Ottocento?).

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Susanna e i vecchioni (1938) di Thomas Hart Benton (1889–1975).

Persino Picasso ha affrontato il tema di Susanna, con il proprio stile.

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Susanna e i vecchioni (1955) di Pablo Picasso (1881-1973).

#87 atlantide

Era una sera afosa quando Wellentheorie si è accorta, chiacchierando con me, che sono un vero e proprio custode di informazioni inutili-che-non-interessano-a-nessuno. Da lì, è stato un attimo propormi di scrivere come guest sul suo bellissimo blog (vi direi di seguirlo a tutti i costi, ma se state leggendo queste righe… lo seguite già).

Detto fatto: dopo aver elencato una manciata di argomenti sui quali avrei potuto scrivere un post più o meno sensato (tra cui la storia dei vibratori – ci arriveremo, promesso), la scelta è ricaduta sul mito di Atlantide.

Barney Stinson

Sono anche riuscito a convincerla a comprare un libro del 1950 sui Paesi Legen…wait for it… dary, edito da Garzanti nella collana “Saper Tutto”.

Questa è il libro che Wellentheorie mi ha regalato: ha 65 anni!
Questa è il libro che Wellentheorie mi ha regalato: ha 65 anni!

Ma partiamo dalla mia passione per Atlantide e dal perché è così radicata nel mio immaginario (e in quello di molti). L’idea che ci sia già stato un apice tecnologico, che poi è caduto in declino fino a scomparire è un tema caro a molti miti e leggende e ha fatto da spunto a tantissimi autori.

Posso citare Jerry Siegel, autore di Superman, che nel 1938 prese spunto da Atlantide per inventare un pianeta tecnologicamente avanzato (Krypton) che all’apice del suo splendore è andato incontro a una catastrofica distruzione.

O posso nominare, in tempi recenti, la mitologia dietro alla saga di Assassin’s Creed, che ipotizza una civiltà avanzata del passato, basata sull’acquisizione di conoscenze e tecnologia aliena che poi è andata distrutta.

Ad ogni modo, ciò che rende speciale per me Atlantide è che ne ho sentito parlare per la prima volta in un vecchio fumetto di mio padre, Mandrake, che finiva a lottare proprio nel regno sottomarino di Atlantide (mi riferisco a questo episodio).

Mandrake

Per chi non lo sapesse, Mandrake è un fumetto ideato da Lee Falk, nel 1934, ed è così “vecchio” che all’inizio non utilizzava neppure i balloon per i dialoghi dei personaggi.

Infatti, per quanto i balloon siano stati inventati attorno al 1400 e siano stati utilizzati qualche anno dopo il lancio anche nel primo fumetto della storia, The Yellow Kid, agli inizi del 1900 non erano ancora divenuti uno standard.

Un po' di classici baloon per i fumetti
Un po’ di classici balloon per i fumetti

Mandrake viveva avventure dal sapore simile a quelle dell’odierno Martin Mystere, edito dalla Bonelli – di cui non vi parlerò per niente perché sennò questo post diventa un elenco sconclusionato di personaggi dei fumetti, ma sappiate che anni fa ho lavorato anche al videogioco su MM, quindi prima o poi, se Wellentheorie non mi caccia prima, vi beccherete un post pure su di lui – alla ricerca di misteri in giro per il mondo.

Quelle ambientazioni, seppur abbozzate, mi hanno così tanto colpito da rimanere nella mia testa per anni, rendendomi letteralmente affamato di informazioni a riguardo.

Mi sono imbattuto così nei due testi di Platone, Timeo e Crizia, due dei suoi tantissimi dialoghi e che fanno parte del gruppo di testi scritti nell’ultima parte della sua vita, denominato Dialoghi Dialettici. In particolare in Crizia viene descritta la creazione di Atlantide che vi riassumo qui:

Poseidone (il dio dei mari) si innamora di una ragazza di nome Clito (ehm… saltiamo facili battute, dai! Facciamo quelli maturi!), e non sapendo dove andare a trombare con ella, crea una struttura concentrica fatta di terra e acqua (tre anelli di acqua e due di terra), li rende rigogliosi e si rinchiude al centro assieme alla sua conquista. Qui, non avendo né televisione né smartphone, concepiscono 10 figli. Il primo, Atlante, diviene l’imperatore della nazione che sorgerà su quelle terre, Atlantide.

Una rappresentazione dell'isola di Atlantide creata da Poseidone
Una rappresentazione dell’isola di Atlantide creata da Poseidone

Leggendo Timeo, invece, la descrizione di Atlantide è differente – segno che Platone andava proprio a braccio, o che si basava su testi (mai rinvenuti) contraddittori.

Platone colloca l’isola di Atlantide oltre le colonne di Ercole, descrivendola come un’isola molto vasta, che viene indicata come l’oppositore della liberale Atene.

Dopo la storia di Poseidone e Clito (ehm… dai, ok, la smetto), inizialmente i regnanti sull’isola erano saggi e potenti e la civiltà crebbe demograficamente e tecnologicamente. Poi, però, a causa dell’animo umano mutò in un regno di conquistatori che volevano solo accrescere il loro potere. Ma proprio quando dichiararono guerra ad Atene, un cataclisma spazzò via l’isola intera, trascinando negli abissi abitanti, tecnologia e reperti preziosi.

Tra essi, Platone cita l’oricalco, un metallo leggendario.

Questo materiale viene ripreso nel videogioco Indiana Jones and the Fate of Atlantis, una delle avventure grafiche che hanno segnato un’epoca (e il più grande interrogativo della storia del cinema – nel senso: ma perché cavolo Lucas e Spielberg sono andati a tirare in ballo alieni e teschi di cristallo con Indiana Jones 4 quando potevano benissimo prendere la trama del gioco e fare una figata?). La trama, ricca di colpi di scena, porta l’archeologo più famoso del mondo alla ricerca del regno perduto di Atlantide proprio seguendo le indicazioni di Platone (anche se l’isola viene collocata al centro del mediterraneo).

Oricalco in un medaglione che diventa una fonte energetica e indica il pericolo... aspetta, mi ricorda qualcosa!
Oricalco in un medaglione che diventa una fonte energetica e indica il pericolo… aspetta, mi ricorda qualcosa!

Nel gioco l’oricalco è in grado di attivare i macchinari che provengono dall’antica civiltà perduta, dando quindi al metallo un potere energetico.

Un espediente uguale, per altro, a quello utilizzato in Atlantis, il film del 2001 della Disney, nel quale una gemma preziosa è capace di attivare tutta la tecnologia dell’isola. Il cartone – uno dei miei preferiti e se non l’avete ancora visto dovete vederlo se non altro per lo stile steampunk ispirato ai romanzi di Verne – e colloca la posizione di Atlantide nell’oceano Atlantico.

Un esempio del design steampunk del film
Un esempio del design steampunk del film

Visto che siamo sul blog di Wellentheorie, non posso non citare Marc Okrand, colui che ha inventato un sacco di linguaggi per film e serie tv (uno tra tutti: il Klingon per Star Trek), che per il film Atlantis ha sviluppato l’Atlantean, basato su parole delle lingue indoeuropee (non mi addentro per non sembrare troppo ignorate; ask to capo-massimo-del-blog per maggiori dettagli: è lei la specialista di lingue!).

Una curiosità del film è che se analizzato attentamente si possono notare un sacco di similitudini con l’anime Fushigi no umi no Nadia (in italiano Il mistero della pietra azzurra). Di questo anime magari parlerò in un’altra occasione con più precisione, ma cito solo Nadia, il personaggio protagonista, che per anni è stata in Giappone un simbolo sociale della lotta all’inquinamento e per la salvaguardia della natura. Nadia infatti è vegetariana e veniva utilizzata come vera e propria icona durante le lotte sociali degli anni ’90. 

Tornando alla Disney, non era la prima volta che prendeva un’idea di un’opera giapponese e la adattava per i suoi film. Infatti nel 1994 Il Re Leone aveva già copiato spudoratamente l’anime Janguru Taitei (in italiano Kimba il Leone Bianco), limitandosi a cambiare il nome del protagonista da Kimba a Simba.

Nota che non interesserà a nessuno: Kimba è stato il primo anime della mia infanzia.

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Per concludere, tornando ad Atlantide, Wellentheorie che mi pensa sempre, l’altro giorno è finita in un mercatino dell’usato e ha comprato il libro La Piramide di Atlantide (Raising Atlantis) – di Thomas Greanias. Appena riuscirò a leggerlo vi farò sapere se è un libro che merita o un mattone buono per livellare il vecchio divano traballante della nonna.

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#82 maledizione di ondina

Le ondine sono creature leggendarie presenti in varie tradizioni. Nel folklore europeo sono in genere descritte come spiriti acquatici simili a fate, o a sirene (metà donne e metà pesci), e considerate maligne o amichevoli a seconda delle leggende.

Secondo diverse tradizioni, le ondine sono prive di anima (e non possono quindi accedere al paradiso dopo la morte), ma possono ottenerne una se sposano un uomo mortale e gli dànno un figlio.

Undine del pittore inglese preraffaelita John William Waterhouse (1849-1917)
Undine del pittore inglese preraffaelita John William Waterhouse (1849-1917)

In una storia germanica, Ondina (o Ondine o Undine) è una bellissima ninfa acquatica e, come tutte le ninfe, immortale.
Si innamora di un uomo mortale, un cavaliere di nome Lawrence, e i due si sposano. Lawrence giura di amarla sempre e di restarle sempre fedele. Un anno dopo il loro matrimonio, Ondina dà alla luce un figlio. In questo modo perde la sua immortalità, e comincia a invecchiare.
Un giorno, Ondina sorprende Lawrence addormentato fra le braccia di un’altra donna. Ondina, incazzatissima, lo maledice: “Tu mi hai giurato fedeltà con ogni tuo respiro, ed io ho accettato il tuo voto. Così sia. Finché sarai sveglio, potrai avere il tuo respiro, ma dovessi mai cadere addormentato, allora esso ti sarà tolto e tu morirai!”

Secondo altre varianti, fu il Re delle Ninfe a punire l’uomo, lanciandogli la maledizione che gli fece “dimenticare” di respirare una volta addormentato.

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Questa storia ha dato il nome alla “Maledizione di Ondina”, che è la denominazione storica dell’ipoventilazione alveolare primitiva.

L’ipoventilazione alveolare primitiva, o sindrome da ipoventilazione centrale congenita (Congenital Central Hypoventilation Syndrome, CCHS), conosciuta anche come sindrome di Ondina o maledizione di Ondina (Ondine’s curse), è un raro disturbo del sonno.

La sindrome è causata dalla mutazione di un gene che colpisce la parte del sistema nervoso che è responsabile dei movimento involontari nel corpo umano, cioè quei meccanismi normalmente automatici, come appunto la respirazione, o meglio la ventilazione polmonare.
La mutazione provoca una disfunzione: il controllo vegetativo della respirazione risulta alterato o completamente assente.

Significa che, per chi ne è affetto, ogni singolo respiro dev’essere prodotto volontariamente. E non si può decidere di respirare quando si dorme: la sindrome comporta la cessazione della ventilazione durante il sonno. I malati, per sopravvivere, hanno bisogno di dispositivi di ventilazione meccanica. Questa è l’unica soluzione: attualmente non esistono vere e proprie cure per questa malattia. Senza dispositivi appositi, i pazienti morirebbero dopo essersi addormentati.

L’ipoventilazione alveolare primitiva è stata diagnosticata per la prima volta solo negli anni Settanta. In tutto il mondo ci sono circa 200 casi conosciuti. La sindrome si manifesta in genere nei primi giorni di vita.

(Ho cercato di informarmi presso fonti attentibili, come il sito dell’A.I.S.I.C.C., Associazione Italiana per la Sindrome da Ipoventilazione Centrale Congenita, ma non sono un’esperta né di leggende e mitologie, né di medicina – se ho scritto delle cazzate, ditemelo).

Undine dell’illustratore Arthur Rackham
Undine dell’illustratore Arthur Rackham

Una storia simile alla precedente, ma senza la maledizione del respiro, è narrata nel racconto Undine del 1811 di Friedrich de la Motte Fouqué, scrittore romantico tedesco (Undine e Huldbrand si innamorano, si sposano, lui la tradisce con una certa Bertalda, lei torna negli abissi marini e lui muore). Il racconto fu pubblicato in Inghilterra con le illustrazioni dell’inglese Arthur Rackham (1867-1939).

A Baden bei Wien (cittadina termale austriaca, a sud-ovest di Vienna) una fontana realizzata dallo scultore viennese Josef Valentin Kassin (1856-1931) rappresenta Undine del racconto di Fouqué.

Baden

#73 cervi, palchi, wendigo

Oggi si parla di cervi e serie tv, in modo ragionevolmente spoiler-free.

Il cervo e Kevin Garvey.
Il cervo e Kevin Garvey.

The Leftovers (stagione 1)

Il cervo impagliato.
Il cervo impagliato.

C’è un cervo impazzito che entra nelle case, un cervo investito da una macchina, un cervo impagliato (?) in un giardino, un cervo ricorrente negli incubi di Kevin Garvey (quel gran figo di Justin Theroux).

Quel gran figo di Justin Theroux.
Quel gran figo di Justin Theroux (foto inutile ma decorativa).

True Detective (stagione 1)

Dora Lange
Dora Lange

1995, Louisiana. I detective Martin “Marty” Hart (Woody Harrelson) e Rustin “Rust” Cohle (Matthew McConaughey) indagano sull’omicidio dell’ex prostituta Dora Lange, trovata in mezzo ad una piantagione, inginocchiata e legata come stesse pregando davanti a un albero, con un palco di corna di cervo come una corona sulla testa, e un misterioso simbolo disegnato sulla schiena.

Rust Cohle e Dora Lange.
Rust Cohle e Dora Lange.

Successivamente Cohle e Hart scoprono che la vittima frequentava una chiesa: la trovano ormai abbandonata, in macerie. Su un muro vedono un disegno che rappresenta una donna con delle corna sulla testa.
Inoltre Cohle, uomo tormentato, soffre di allucinazioni, dovute o alle droghe che assume o a un disturbo post-traumatico da stress.

Donna con corna.
Donna con corna.

Hannibal (stagioni 1 e 2)

Serie televisiva statunitense basata sui romanzi di Thomas Harris. I protagonisti:
Hannibal Lecter (interpretato da Mads Mikkelsen, attore danese): medico, psichiatra, criminologo, serial killer e antropofago (=cannibale), appassionato di cucina e musica classica.
Will Graham (interpretato da Hugh Dancy): lavora come profiler per l’FBI. Super intelligente ma tormentato, soffre di allucinazioni, incubi, episodi di sonnambulismo e cose del genere. Le due principali immagini ricorrenti nelle sue visioni sono un alce e un tizio con corna ramificate sulla testa.

Cassie Boyle
Cassie Boyle

Nel primo episodio della prima stagione, l’FBI indaga sulla morte di Cassie Boyle, in Minnesota (video). La ragazza viene ritrovata in un campo, disposta sopra una testa di cervo, e il cadavere è trafitto dalle corna dell’animale. I polmoni sono stati rimossi (e indovinate cosa si cucina Hannibal, per cena…).

Hannibal prepara la cena.
Hannibal prepara la cena.

Il killer viene ribattezzato dalla stampa “Minnesota Shrike” (da non confondere con il Chesapeake Ripper, o Squartatore di Chesapeake). Lo shrike è un uccello passeriforme comunemente chiamato averla: “Le averle hanno l’abitudine di predare insetti e piccoli vertebrati e di infilzarli sulle spine o sui rami dei cespugli. Questo permette loro di sminuzzarli in parti più piccole e di tornare in seguito a finire il pasto se la preda non è consumata immediatamente”.

Minnesota Shrike's nest
Minnesota Shrike’s nest

Garret Jacob Hobbs, incolpato dell’omicidio di Cassie Boyle, ha un’intera stanza tappezzata di corna di cervo, spesso chiamata “Minnesota Shrike’s nest”, nella quale, nel terzo episodio della prima stagione, viene ritrovato il corpo di Marissa Schurr (amica di Abigail Hobbs) impalato su corna di cervo.

Nel terzo episodio della seconda stagione, anche il cadavere di Andrew Sykes (un tizio del tribunale) viene ritrovato sopra una grande testa di cervo, trafitto dalle corna.

Marissa Schurr
Marissa Schurr

Bryan Fuller, tra gli autori della serie Hannibal, in un’intervista ha spiegato che nel romanzo di Harris Red Dragon ci sono alcune pagine sul Minnesota Shrike, ma non viene descritto dettagliatamente come uccide le sue vittime. Per la serie c’era bisogno di un’immagine forte, che inoltre potesse avere conseguenze sulla psicologia di Will Graham. Bryan Fuller dichiara di essersi ispirato a una scena di Le notti di Salem (Salem’s Lot), miniserie televisiva del 1979 diretta da Tobe Hooper, in cui il personaggio interpretato da James Mason spinge un tizio contro una parete piena di corna, uccidendolo per impalamento. La miniserie è tratta dall’omonimo romanzo di Stephen King ma non è un adattamento fedele del romanzo.

9 Salem's Lot

A questo punto, dovrebbe essere chiaro che le parole chiave di questo post sono cervo e corna.

Cervo, in inglese si dice “deer“, che – ho scoperto – ha la stessa identica pronuncia di “dear“, caro. Le due parole sono omofone (si pronunciano uguali) ma non omografe (perché si scrivono in modo diverso), come ad esempio morning e mourning. (Qui un elenco di sorprendenti e frustranti omofonie in inglese.)
Stag” significa cervo maschio adulto. Metaforicamente, “stag” può riferirsi anche a una persona (soprattutto un uomo) che partecipa a un evento sociale non accompagnata da un partner (l’espressione tipica è “to go stag”).

Fino ad ora ho parlato di “corna”, ma la parola giusta è “palchi“, in inglese “antlers“: sono le appendici ramificate, impropriamente dette corna, che si trovano sul capo di quasi tutte le specie appartenenti alla famiglia dei Cervidi (famiglia che comprende l’alce, il capriolo, la renna, il daino e decine di specie comunemente chiamate “cervi”). Solo i maschi adulti sono provvisti di palchi, con l’eccezione della renna (in cui anche le femmine possiedono dei palchi, ma più piccoli di quelli maschili).

8 antlers

Cervi e corna sono elementi frequenti nelle mitologie di moltissimi popoli, in diversi luoghi ed epoche, e il loro simbolismo è estremamente vasto. Ho cercato di capirci qualcosa, ma non ci sono ben riuscita. In ogni caso, son cose interessanti.

Diana e Atteone (1518), Lucas Cranach il Vecchio
Diana e Atteone (1518), Lucas Cranach il Vecchio

Nella mitologia greca, il cervo era associato in particolare alla dea Artemide, la vergine cacciatrice. Artemide era una delle più venerate divinità dell’antica Grecia: dea della caccia, della verginità, dei boschi e di altre cose, equivalente nella mitologia romana alla figura di Diana. Il suo carro era tirato da cervi. Soprattutto, è interessante il mito di Atteone, giovane cacciatore che, nel corso di una battuta di caccia, sorprende Artemide mentre fa il bagno nuda con le sue compagne. La dea, incazzatissima, per vendicarsi e impedire ad Atteone di raccontare in giro quello che aveva visto, gli spruzza dell’acqua addosso e lo trasforma così in cervo. Atteone si accorge della trasformazione solo quando arriva a una fonte e si specchia nell’acqua. Viene poi raggiunto dalla muta dei suoi cinquanta cani, che non riconoscono il loro vecchio padrone e lo sbranarono, uccidendolo.

L’immagine di Atteone-cervo brutalmente ucciso dai suoi cani è molto simile alla scena finale del pilota di The Leftovers, in cui Kevin Garvey vede il cervo mentre viene aggredito da un branco di cani selvatici, e cerca di salvarlo sparando ai cani.
Inoltre il tema della caccia, più o meno esplicito in queste diverse serie tv, potrebbe riferirsi a una simbologia precisa: la ricerca della selvaggina, l’inseguimento delle tracce, rappresentano in genere la ricerca spirituale. Molti di questi personaggi sono continuamente e instancabilmente in cerca di qualcosa: i killer cercano nuove vittime, i detective cercano i colpevoli, un po’ tutti cercano risposte.

L'albero della vita (1905-1909), Gustav Klimt
L’albero della vita (1905-1909), Gustav Klimt

Per le sue grandi corna ramificate, che si rinnovano periodicamente, il cervo viene spesso paragonato all’albero della vita e rappresenta quindi la fecondità, la crescita, il carattere ciclico dell’esistenza, la morte e la rinascita. Come l’albero che ogni anno si spoglia e si riveste delle proprie foglie, è immagine arcaica di rinnovamento e perpetua rigenerazione.

Si vede una sorta di unione tra l’immagine ricorrente delle corna ramificate e il simbolo dell’albero in Futamono, sesto episodio della seconda stagione di Hannibal, in cui un cadavere viene ritrovato tutto attorcigliato a un albero: il corpo funge da tronco, rami in fiore si aprono al di sopra della testa come palchi, in più diversi organi sono stati asportati e rimpiazzati con piantine fiorite.
hannibal Futamono

Uno degli dei della mitologia celtica è Cernunnos, rappresentato come un uomo con in testa il palco di un cervo. Viene in genere chiamato il Dio Cornuto (The Horned God) nonostante, volendo essere precisi, abbia un palco (antlers) e non delle corna (horns). Di questa divinità si sa piuttosto poco, ma è probabilmente il dio della fertilità, dell’abbondanza, della natura e del ciclo di nascita, morte e rinascita. Le sue corna sono come un irradiamento di luce celeste. Simili divinità cornute esistono in varie mitologie e in culti neopagani tipo Wicca.

Cernunnos
Cernunnos

Le corna, che si estendono verso l’alto, come i rami degli alberi, possono anche rappresentare l’ascensione verso il cielo e la comunicazione con il mondo divino, facendo del cervo un mediatore tra cielo e terra, un messaggero divino.
In varie tradizioni il cervo, la renna, il capriolo o il daino, svolgono il ruolo di psicopompo, cioè hanno la funzione di accompagnare il defunto nell’altro mondo.

Questo carattere funerario, di collegamento con il regno dei morti, potrebbe essere il simbolismo evocato dal cervo o dalle sue corna in queste tre serie televisive, dove la morte è spesso protagonista.
In particolare, in The Leftover il cervo compare in quel 14 ottobre in cui il 2% della popolazione mondiale sparisce nel nulla, e poi in occasione del terzo anniversario dell’accaduto. Il cervo potrebbe forse rappresentare un medium tra Kevin Garvey e gli scomparsi, i quali non sono proprio morti ma si trovano comunque in un mondo misterioso e irraggiungibile per coloro che sono rimasti.

In molte culture vengono venerati animali dotati di corna oppure divinità cornute. Le corna sono generalmente simbolo di potenza, di potere fisico e terrestre, ma spesso anche spirituale: ad esempio, le corna di Mosè, come nella scultura di Michelangelo, rappresentano la sua potenza spirituale e la relazione con la divinità.
Le corna sono tipiche dell’iconografia di Mosè, ma sono probabilmente dovute ad un errore di interpretazione e traduzione del Libro dell’Esodo (34-29), in cui si dice che Mosè, dopo aver ricevuto da Dio le tavole dei dieci comandamenti, scende dal monte Sinai, ignorando di essere “cornuto” oppure “raggiante”. La differenza dipende dalla diversa interpretazione del verbo ebraico qrn, che può indicare sia il termine qaran o karan (radiosità, irradiazione luminosa), sia il termine qeren o keren (corna). Quando San Gerolamo tradusse il testo ebraico in latino nella Vulgata, scelse l’interpretazione delle corna, e questo dettaglio fu ripreso da moltissimi artisti. Spesso nei dipinti la testa di Mosè è raffigurata con due fasci di luce simili a corna, come a congiungere le due interpretazioni.
mose michelangelo

Le corna, specialmente quelle dei bovidi, sono spesso simbolo di fertilità e forza vitale, e caratterizzano a volte le grandi divinità femminili, del tipo della Grande Madre. Ma essendo in molte specie animali un tratto maschile, usate come arma e come mezzo di attrazione sessuale, le corna sono anche simbolo di potenza virile.
Quest’ultimo potrebbe essere il simbolismo delle corna in Hannibal, nel contesto della tensione erotica tra Hannibal e Will: rappresenterebbero l’energia sessuale, e l’attrazione di Will per il potere e la virilità di Hannibal. Sarebbero inoltre un emblema della forza fisica e intellettuale di Hannibal, e della sua dominanza su Will.

Nell’iconografia cristiana il diavolo viene tradizionalmente rappresentato con le corna. I primi cristiani attribuirono questa caratteristica al simbolo del male per eccellenza probabilmente per avvicinarlo alle tante divinità pagane dotate di corna, come Cernunnos, e anche Pan e Dioniso: la vittoria di Dio contro il diavolo equivale alla vittoria del cristianesimo sul paganesimo. In più le corna sono simbolo di dualità, divisione, divergenza, ambivalenza.

Hannibal - Season 2
In Hannibal, a partire dal finale della prima stagione, di tanto in tanto il personaggio di Hannibal Lecter si manifesta agli occhi di Will Graham con le sembianze di una figura umana, cupa e mostruosa, con le corna sulla testa. All’interno della serie, questa entità rimane senza nome, ma dai fan viene chiamata “The Stag Man” o “Wendigo”.
La presenza delle corna può suggerire un accostamento tra Hannibal e il diavolo: entrambi sono maligni, distruttori, bugiardi e manipolatori, soprattutto cercano di tentare vero il male.
nightmare stag
L’alce delle visioni di Will potrebbe rappresentare Hannibal, oppure Will stesso, o meglio il lato oscuro della personalità di Will. Lo “Stag Man” o “Wendigo” è invece associato a Hannibal con meno incertezza: è abbastanza chiaro che si tratta della rappresentazione di Hannibal nella psiche di Will. Il parallelo tra Hannibal e il Wendigo è particolarmente appropriato.

Il Wendigo (o Windigo) è una creatura della mitologia dei Nativi Americani Algonchini, stanziati lungo la costa orientale e la regione dei Grandi Laghi tra gli attuali Stati Uniti e il Canada.
Le credenze che lo riguardano possono variare moltissimo a seconda della tribù, ma in generale si tratta di uno spirito demoniaco e maligno, spaventoso, divoratore di uomini. In parte umano, in parte animale, è tipicamente descritto come un gigante dal corpo scheletrico ed emaciato, ricoperto da peli, con grandi artigli ed enormi denti. A volte presenta corna di cervo. È un ottimo predatore, molto veloce e molto forte. Si dice che abbia il cuore di ghiaccio e che l’unico modo per distruggerlo sia con il fuoco.
Si crede che un uomo, se si è nutrito di carne umana, si trasforma in Wendigo. In questo senso, la leggenda funziona come deterrente per scoraggiare il cannibalismo, in luoghi dove le difficili condizioni di sopravvivenza nei lunghi e rigidi inverni possono indurre proprio al consumo di altri esseri umani.
La figura del Wendigo è infatti fortemente associata all’inverno, il freddo, la carenza di cibo e la morte per fame. Allo stesso tempo, è simbolo di ingordigia ed eccesso, perché il Wendigo non è mai soddisfatto dopo aver ucciso e divorato una persona, ed è costantemente alla ricerca di nuove vittime.
Riferimenti al Wendigo o a creature simili sono molto comuni nella letteratura e nel cinema.

Alcune rappresentazioni del Wendigo
Alcune rappresentazioni del Wendigo

#64 joseph campbell

Oggi faccio un po’ l’intellettuale. Ho addirittura letto un libro. Ci ho trovato delle idee interessanti, che cercherò di riassumere qui. Sarà un post lungo e noioso.
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Joseph Campbell (1904-1987) è stato uno studioso americano che si è occupato soprattutto di mitologia e religione comparata.
Nato in una famiglia cattolica irlandese, da bambino si è appassionato alla cultura dei Nativi Americani. Secondo la postfazione del libro che ho appena letto, al college “mentre si specializzava in letteratura medievale, suonava jazz in una band e diventò un podista di spicco”. E ha studiato russo per leggere Guerra e pace in lingua originale. Cioè, capito che tipo è? In più, George Lucas si è ispirato ai suoi libri per la saga di Star Wars (davvero! Lo dice anche Wikipedia).

Campbell ha teorizzato che “tutti i miti sono produzioni creative della psiche umana, che gli artisti sono i mitopoieti della civiltà e che i miti sono manifestazioni creative del bisogno universale dell’umanità di spiegare la realtà psicologica, sociale, cosmologica e spirituale”.
È stato molto influenzato da Thomas Mann e James Joyce: “È per noi più probabile trovare somiglianze con le esperienze di Stephen Dedalus e di Hans Castorp che con quella di san Paolo. San Paolo fece questo e quest’altro, ma in una terra remota e millenni fa. Oggi non andiamo più a cavallo e non portiamo più i sandali”. Al contrario, le esperienze di Stephen Dedalus e di Hans Castorp “riguardano conflitti e problemi che noi viviamo”, di conseguenza possiamo riconoscerci in loro e anche vederli come modelli. Infatti “i miti di una certa società offrono effettivamente modelli di ruolo per quella data società in quella data epoca”.

Campbell ha individuato quattro funzioni principali della mitologia. La prima, consiste nel conciliare la coscienza con la propria esistenza, con la natura della vita. Non solo: “conciliare con gratitudine, amore e senso di dolcezza”. La vita può essere terribile, ma l’individuo deve accettare di viverla così com’è, e inoltre all’interno del proprio gruppo sociale, di cui deve accettare tradizioni e regole. Una mitologia fornisce un senso alla vita, per renderla vivibile: “Un ordine mitologico è un sistema di immagini che rende cosciente un certo significato dell’esistenza, che – miei cari – non ne ha, perché semplicemente è. Ma la mente va in cerca di un significato. Non può giocare, se non conosce (o non inventa) qualche sistema di regole”.

La seconda funzione è detta cosmologica e consiste nel presentare un’immagine del mondo e dell’universo circostante. “Un’immagine cosmologica offre un campo in cui giocare il gioco che contribuisce a conciliarci con la nostra vita, con la nostra esistenza, con la nostra stessa coscienza, con le nostre aspettative di senso”. Deve darci una spiegazione di tutto ciò con cui entriamo in contatto, e alimentare in noi un sentimento di rispetto e soggezione.
Il sistema cosmologico deve essere sensato, ma non è una questione di verità: l’importante è che sia credibile. Per questo oggi la tradizione biblica ha qualche problema: “Ogni affermazione cosmologica della Bibbia è stata confutata” (la Chiesa ci ha provato a bruciare sul rogo quelli che contestavano, e per un po’ ha funzionato, ma non poteva continuare per sempre). Campbell aggiunge: “Onestamente, nessuno può più dire di credere a queste cose; finge: «Sì, va tutto bene; a me piace essere cristiano». Va bene, a me piace giocare a tennis”.
Attualmente la situazione è più incasinata e instabile: “La nostra cosmologia è nelle mani della scienza. La prima legge della scienza è che la verità non è stata trovata. Le leggi della scienza sono ipotesi di lavoro. Lo scienziato sa che in ogni momento si possono trovare dei fatti che rendono obsoleta la teoria attuale. Succede continuamente. È buffo.” La vita di oggi, in generale, cambia troppo rapidamente: “Oggi manca la stasi necessaria a formare una tradizione mitologica”.
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“La terza funzione di un ordine mitologico è convalidare e sostenere un certo sistema sociale”, cioè un insieme condiviso di regole, comportamenti, usanze, da cui dipende l’esistenza di un gruppo sociale.
L’idea è che la struttura e l’ordine sociale siano della stessa natura dell’ordine cosmologico, perciò “ugualmente valide ed ugualmente indiscutibili”. La divinità che ha creato il cosmo, regolato dalle sue leggi, è la stessa divinità che ha stabilito le norme sociali e morali: dunque non si possono negare, né cambiare, né possiamo opporci, come non possiamo avere alcuna influenza sul sorgere del sole.
Da tempi antichissimi l’essere umano ha capito che il cosmo è ordinato: il sole, le stelle, i pianeti, si muovono seguendo un disegno preciso, matematico. Secondo moltissime culture l’ordine sociale è parte dell’ordine naturale delle cose, e ogni individuo deve assumere il suo ruolo all’interno del sistema. Un esempio è il rigido sistema delle caste in India, che si crede rispecchi l’ordine dell’universo, chiamato “dharma” in sanscrito (sì, come il progetto Dharma di Lost).
Noi oggi non siamo tanto disposti a far coincidere le leggi di Dio con le leggi della società e della nazione, anche se tuttora ogni tanto qualcuno vorrebbe abolire il diritto all’aborto o al divorzio, ad esempio.
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“Infine, la quarta funzione della mitologia è psicologica. Il mito deve trasportare l’individuo attraverso le fasi della vita, dalla nascita alla maturità e attraverso la senilità fino alla morte. La mitologia deve farlo in accordo con l’ordine sociale del gruppo, poiché il cosmo e l’enorme mistero della vita sono così come li intende il gruppo”.
Una mitologia aiuta l’individuo a vivere la crescita e i cambiamenti, in particolare la transizione dall’infanzia all’età adulta, cioè il passaggio dalla condizione di dipendenza a quella di responsabilità; e poi ad accettare l’avanzare dell’età, la perdita delle forze, e la transizione inversa dalla responsabilità alla dipendenza, fino all’accettazione della prospettiva della morte.
Campbell scrive: “Tutti noi seguiamo un percorso molto simile in termini di sviluppo psicologico dalla culla alla tomba”.
Il mito, quindi, aiuta nella transizione. Questo è particolarmente evidente nei riti di iniziazione (il rituale funge da rappresentazione drammatica, visiva, attiva e partecipativa di un mito). Nella nostra società c’è tutta una serie di esperienze che accompagnano i cambiamenti, ma non ci sono veri e propri rituali di passaggio. È tutto più un casino. Avete presente le bimbe delle elementari che ballano e si vestono come fossero in un video di Britney Spears? E i sessantenni immaturi come adolescenti? Ecco, appunto.
Campbell scrive che oggi rimangono solo residui di vecchi miti, in cui non è facile identificarsi, ma possiamo rivolgerci all’arte: “Gli artisti sono aiutanti magici. Evocando simboli e temi che ci riportano al nostro Sé più profondo, possono aiutarci nel viaggio eroico della nostra vita”.

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Per certi aspetti il lavoro di Campbell è molto vicino a quello di Carl Gustav Jung. Studiando mitologia comparata e storia delle religioni, Jung trovò parallelismi precisi tra l’immaginario dei suoi pazienti e i temi mitologici. Espose questi suoi studi in Simboli della trasformazione, pubblicato nel 1912. Soprattutto, ampliava “la ricerca analitica dalla storia del singolo alla storia della collettività umana” e, oltre all’inconscio individuale, parlava di un inconscio collettivo: un “contenitore psichico universale”, ovvero la parte dell’inconscio che è comune in tutti gli esseri umani. Così per Jung diventò impossibile collaborare ancora con Freud, che era troppo fissato col sesso e riusciva solo a vedere simboli fallici dappertutto.
Per Jung, la psiche di ogni essere umano è organizzata nello stesso modo: queste strutture fisse sono gli archetipi dell’inconscio collettivo. Jung li chiama persona, ombra, animus o anima, e . Questi archetipi emergono personificati nei miti e nei sogni. Per questo le mitologie di tutto il mondo presentano motivi ricorrenti, simboli universali.
Ci sono infatti immagini mitologiche che si trovano in tutti i miti del mondo. Sono temi universali, anche se con declinazioni storiche diverse.
Campbell è convinto che i miti provengano dalla psiche e parlino alla psiche: il riferimento dei simboli mitologici è la psicologia, qualcosa che è in noi stessi. Non un evento storico, accaduto nel tempo. Secondo lui, le attuali religioni dell’Occidente hanno insistito troppo sulla storicità concreta dei loro simboli (la nascita dalla Vergine, la Resurrezione, l’ascensione, ecc.). Finché è sorto qualche dubbio sulla verità storica di questi miti fondanti. Ma se si comincia a dubitare della base del mito, “la fede si guasta” e anche il simbolo viene rigettato: “Questo non può essere successo, quindi sbarazziamoci dei miti”. E così i miti smettono di svolgere quelle che per Campbell sono fondamentali funzioni per la vita umana, in particolare quella psicologica/spirituale.

Un discorso interessante è quello delle mitologie “paideumatiche”. “Paideumatico” è il termine coniato da Leo Frobenius, etnologo tedesco, “per descrivere la tendenza di una civiltà a conformarsi al proprio ambiente fisico: clima, suolo, geografia”.
Si possono individuare due principali visioni del mondo contrapposte.
Popoli primitivi che abitavano terre fredde e settentrionali, oppure calde e desertiche, erano costretti dal contesto a una sussistenza basata sulla caccia. All’interno di un popolo cacciatore, sono gli uomini a portare il cibo, e quindi a nutrire il gruppo. L’ideale di uomo corrisponde al bravo cacciatore, forte e coraggioso. Anche bravo combattente, perché questi popoli vivono costanti conflitti con altri gruppi cacciatori vicini.
Un popolo guerriero e cacciatore ha, al centro della propria mitologia, una divinità maschile, che personifica la forza e il coraggio.
Si sviluppa una “civiltà patriarcale, meno raffinata ma fisicamente più potente”, per questo destinata al predominio su popoli agricoltori, i quali però presentano in genere una cultura più sofisticata, che viene spesso assimilata dai popoli dominanti.
Inoltre, questa è una civiltà che “vive sulla morte”, e cioè sopravvive grazie alla continua uccisione di animali. Per accettare questa realtà, si sviluppa tipicamente una mitologia in cui l’animale viene visto come vittima volontaria, che si offre, si sacrifica, dopo aver stipulato una sorta di patto con il cacciatore, il quale si impegna a celebrare un apposito rituale che, secondo le loro credenze, servirà a “ridare la vita” all’animale. Il rituale può consistere ad esempio nel restituire il sangue dell’animale alla terra.
Ad esempio, gli ebrei erano un popolo di cacciatori e pastori, e il rituale Kosher della macellazione degli animali permessi, cioè la cosiddetta Shechitah, prevede l’uccisione dell’animale con un solo taglio alla gola, in modo da provocarne la morte immediata e il completo dissanguamento. È vietatissimo consumare il sangue, perché si crede che contenga la vitalità dell’animale. Se ho ben capito, il sangue viene fatto assorbire dalla terra.
Il Dio dell’Antico Testamento è un maschio, e neanche tanto gentile, proprio perché si tratta della mitologia di un popolo cacciatore, che vive in terre aride. In un contesto simile, le donne non hanno un ruolo decisivo, e neanche alla “Madre Terra” viene riconosciuta una grande importanza: “Prendiamo il Genesi. Chi ha mai sentito di un uomo che partorisce una donna? Eppure, troviamo questa sciocchezza nel giardino dell’Eden, dove Adamo partorisce Eva. Il maschio si appropria di un ruolo femminile. In ebraico “adam” significa “terra”. Così il genere umano nacque dalla terra e, precisamente, da un padre terreno, non dalla Madre Terra”.
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In ambienti diversi, come ai Tropici, un popolo primitivo può seguire un’alimentazione prevalentemente vegetale, basata sulla raccolta della frutta, o sull’agricoltura. Le donne si occupano di allevare i bambini, e spesso anche di coltivare la terra e di costruire case. In queste culture, la donna-madre “personifica le potenze generatrici della terra”: dà la vita, fa nascere e nutre. Allora al centro della loro mitologia c’è una divinità femminile: la Terra, la Dea Madre, che personifica la fertilità. Gli esseri umani sono i suoi figli e la pregano perché produca ricchezze e frutti per nutrirli.
Inoltre, in una foresta tropicale, l’essere umano si trova costantemente di fronte all’evidenza del ciclo vitale: la vegetazione decade, e dal marcio spunta nuova vita. L’idea che logicamente ne consegue è che “dalla morte nasce la vita”. Da qui derivano gli assassini rituali, cioè dalla credenza che il sacrificio porta nuova vita.
Questi miti e riti affermano “l’orrido fatto che la vita si nutre della morte”. E allora le vittime sacrificate spesso vengono mangiate. È quello che chiamiamo con orrore “cannibalismo”. Ma anche nel rituale della messa cattolica, i fedeli mangiano il “corpo di Cristo”, che okay, non è un vero cadavere, ma è lo stesso rito: ne è rimasto solo il simbolo, è stato sublimato.
Campbell racconta che spesso gli viene chiesto se crede in Dio, e se si immagina una divinità maschile o femminile: “Per quanto mi riguarda, una volta Alan Watts mi chiese quale pratica spirituale seguivo. «Sottolineo libri», risposi.” (che è praticamente anche la mia religione).
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Il problema del genere, e dell’opposizione maschile/femminile, si trova anche all’interno del singolo individuo.
Un uomo deve essere principalmente maschile: la società gli assegna un ruolo da interpretare e determinati compiti da svolgere, diversi da quelli femminili. Tutte le parti di sé che la società non gli permette di sviluppare, vengono represse nell’inconscio e costituiscono il suo lato femminile, che Jung chiama anima. Analogamente, l’ideale maschile nell’inconscio femminile è chiamato animus. Ognuno porta in sé entrambi i generi, ma tutte le società umane permettono di evidenziarne soltanto uno, così l’altro viene interiorizzato.
“In entrambi i casi l’ideale sepolto all’interno tende a essere proiettato all’esterno. Di solito chiamiamo questa esperienza innamoramento: proiettiamo il nostro ideale del sesso opposto su una persona che, per una sorta di magnetismo, porta a far emergere il nostro animus/anima.”
Il problema è che la realtà è sempre imperfetta, e soprattutto è sempre diversa dai nostri ideali e proiezioni: quando due innamorati cominciano a conoscersi “il disinganno è inevitabile. Uno aveva un ideale e l’ha sposato; improvvisamente nota cose che non quadrano con la propria proiezione”. Così l’innamoramento finisce, e si presentano due opzioni: sbarazzarci del tizio del momento e trovarne un altro su cui proiettare più agevolmente il nostro animus/anima, almeno per un po’ di tempo; oppure adottare l’atteggiamento che Campbell definisce compassione: “Ho sposato solo un essere umano. D’accordo, anch’io sono un essere umano”. Jung sostiene la necessità di liberarsi delle proprie proiezioni e in particolare dell’attaccamento al proprio animus/anima: “Jung chiama questo processo “individuazione”: vedere sé e gli altri nei termini di ciò che effettivamente sono e non nei termini di tutti gli archetipi, che uno proietta intorno o che gli altri proiettano su di lui”.
Be’, è una teoria che si può condividere o meno, ma comunque è interessante, considerando tra l’altro che Joseph Campbell è stato sposato cinquant’anni con Jean Erdman (una sua ex studentessa, ballerina e coreografa, che ha attualmente 98 anni). E il matrimonio è finito solo perché lui è morto.
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Campbell fa poi tutto un discorso sulle opposizioni che non sono sicura di aver capito, comunque parla di Sigfrido (detto anche Siegfried o Sigurd), eroe epico della mitologia norrena, che uccide Fáfnir (o Fáfner), un tizio che si era trasformato in drago.
Sigfrido trafigge il drago e raccoglie il suo sangue in una fossa, dove fa il bagno: perché immergersi nel sangue di drago conferisce il dono dell’invulnerabilità. Ma una foglia di tiglio gli si posa accidentalmente sulla schiena, tra le scapole, e quello resta il suo unico punto debole.
Questa storia ha una sorprendente somiglianza con quella di Achille, l’eroe greco: la sua mamma Teti lo aveva inzuppato nelle acque dello Stige per renderlo invulnerabile, ma lo teneva per il famoso tallone, che dunque non venne bagnato e rimase il suo punto debole. Così Achille combatte eroicamente la guerra di Troia finché Paride lo colpisce con una freccia – dove? – esattamente nel suo tallone d’Achille.
Nessuno si stupirà, quindi, leggendo che Sigfrido alla fine viene colpito – dove?? – esattamente nel suo tallone d’Achille, ovvero tra le scapole. E muore.
Ma torniamo indietro, all’uccisione di Fáfnir: Sigfrido assaggia il sangue del drago, e acquisisce la capacità di comprendere il linguaggio degli uccelli. In seguito, ne mangia anche il cuore, che gli dà il dono della profezia.
Questa cosa della lingua degli uccelli mi era sembrata davvero molto molto strana, e invece ho scoperto che è un tema diffuso in numerose tradizioni mitologiche (ci farò un altro post, perché il discorso va per le lunghe).

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Comunque, quella di Sigfrido è la tipica uccisione del drago da parte dell’eroe. Il drago, nelle tradizioni occidentali, rappresenta il male, la distruzione, il lato oscuro. Per questo motivo, nel Medioevo il drago entrò nell’iconografia cristiana come simbolo di Satana, ovviamente sconfitto dall’eroe o santo di turno.
Campbell scrive che la contrapposizione è vitale, e l’equilibrio sta nella tensione continua tra gli opposti. E ha un’interpretazione interessante della leggenda di Sigfrido: “Lui e il drago sono gli opposti, ma, solo dopo aver assaggiato il sangue del drago e averlo integrato in sé, Siegfried ode il canto degli uccelli e capisce cosa stanno dicendo. Non si entra in contatto con le forze della natura, che includono sia noi sia l’altro, finché non si accetta come parte integrante di se stessi la parte in precedenza esclusa”. Perché ognuno prende una strada piuttosto che un’altra, abbandonando potenzialità che comunque aveva, le quali non vengono sviluppate ma rimangono una parte di noi, qualcosa di interiore. E Jung sostiene che “non ci si deve identificare con l’altro, ma si deve assimilarlo e riconoscere che rappresenta un altro aspetto di quel che noi siamo”.

#57 triangolo di primavera

Ho scoperto che le stelle, nel corso dell’anno, girano. È un’informazione di pubblico dominio da tempi remoti, ma io ne ho constatato la veridicità solo adesso: dalla finestra della cucina qualche mese fa si vedevano benissimo le tre stelle che formano il cosiddetto Triangolo Invernale, con le relative costellazioni, mentre adesso si vede il Triangolo di Primavera. Ma pensa te come passano le stagioni.
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Il Triangolo di Primavera si chiama così perché, nell’emisfero boreale, è visibile al meglio in questa stagione, e anzi domina i cieli primaverili. È formato dalle stelle Arturo, Spica e Denebola. Essendo posizionate vicino all’equatore celeste, sono tutte e tre osservabili da tutte le aree popolate della Terra (sono invisibili praticamente solo nelle regioni antartiche).

Denebola (Beta Leonis) è la terza stella più luminosa della costellazione del Leone. Il suo nome deriva dall’arabo e significa “la coda del Leone”.
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Spica (o Spiga o Alfa Virginis) è la stella più luminosa della costellazione della Vergine (Virgo), una delle più grandi costellazioni del cielo. Il suo colore tende all’azzurro. Il suo nome, spica virginis, cioè “spiga di grano della Vergine”, si riferisce alla pianta che la Vergine tiene in mano nelle rappresentazioni tradizionali.
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Il vertice più brillante del Triangolo di Primavera è Arturo (o Alfa Bootis o Arcturus): la quarta stella più brillante del cielo notturno dopo Sirio, Canópo e Alfa Centauri. Considerando solo le stelle visibili dalle latitudini settentrionali, Arturo è la seconda stella più luminosa dopo Sirio, perché Canopo e Alfa Centauri sono visibili solo a latitudini più meridionali rispettivamente del 37º e 29° parallelo nord (praticamente appena sotto l’Italia).
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Arturo è tra le stelle più vicine a noi (36,7 anni luce) ed è parecchie volte più grande del sole.
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Arturo appartiene alla costellazione del Boote, chiamata anche Bifolco. Nella mitologia greca esistono numerose leggende legate a questa costellazione, ma in genere la storia riguarda la giovane Callisto: Zeus se ne innamora e ne nasce il figlio Arcade, poi per qualche motivo Callisto viene trasformata in orsa. Un giorno, Callisto-orsa e Arcade, ormai adulto, si incontrano nel bosco: lei riconosce il proprio figlio e cerca di salutarlo, ma lui la scambia per una semplice orsa, e le cose si mettono male, finché qualcuno (forse Zeus) li trasforma in costellazioni: Orsa Maggiore e Boote. In altre versioni Arcade viene trasformato nell’Orsa Minore e Zeus crea Boote per proteggere le due orse.
In ogni caso è un mito particolare perché Zeus, per sedurre Callisto, assume le sembianze della dea Artemide: pare che sia l’unico mito lesbico greco (questo mi stupisce moltissimo perché Zeus per farsi donne/ninfe/dee/uomini si è trasformato tipo in toro, cigno, pioggia dorata, e non credevo che sembianze femminili fossero per lui una stranezza. Cioè un rapporto donna-donna è più strano di un rapporto donna-cigno? Boh).
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A partire dagli anni settanta sono state individuate diverse decine di stelle che condividono il moto proprio di Arturo: sono state chiamate la Corrente stellare di Arturo. Si ipotizza che questo flusso di stelle sia quello che rimane di un’antica galassia oramai disgregata e assimilata dalla Via Lattea. Wikipedia cita come fonte un articolo dal titolo esplicativo: Sucked in! Our galaxy eats neighbour.

Arturo si riconosce per il suo colore arancione e si può individuare facilmente prolungando l’arco formato dalle tre stelle del timone del Grande Carro. Oltre, sulla stessa linea, si trova Spica.
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Ora, io non avevo mai capito perché si parla di Grande Carro ma anche di Orsa Maggiore, e cosa c’entrino i carri con gli orsi, e soprattutto come quel coso assomigli a un orso. Ho chiarito tutto:
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L’Orsa Maggiore (Ursa Major) è una costellazione, cioè una delle 88 parti in cui la sfera celeste è convenzionalmente suddivisa allo scopo di mappare le stelle. Ognuna delle costellazioni ufficiali ha confini precisi, in modo che ogni punto della sfera celeste appartenga a una sola costellazione.
La costellazione dell’Orsa Maggiore è molto grande e parecchie delle sue stelle non sono semplici da avvistare a occhio nudo (e non tutte restano sempre visibili sopra l’orizzonte), mentre le sue sette stelle più brillanti sono ben riconoscibili e formano il cosiddetto Grande Carro, che è un asterismo. Un asterismo è un gruppo di stelle, in genere molto luminose, riconoscibile per la sua particolare forma geometrica (ad esempio un triangolo).
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Il Grande Carro è quindi solo una piccola parte dell’Orsa Maggiore. Lo stesso discorso vale per l’Orsa Minore (Ursa Minor), le cui stelle più luminose formano l’asterismo detto Piccolo Carro. La stella più luminosa di questa costellazione è la stella polare o stella del nord (o Polaris o Alfa Ursae Minoris). Si trova quasi perfettamente sulla proiezione in cielo dell’asse di rotazione della Terra sopra il polo nord, e per questo motivo la stella polare appare ferma nel cielo mentre tutte le altre stelle sembrano ruotarle attorno. Per questo è da sempre un ottimo punto di riferimento nella navigazione.

polaris

Orsa Maggiore e Orsa Minore sono costellazioni tipiche dei cieli boreali: nell’emisfero nord sono costellazioni circumpolari, cioè non tramontano mai, restando visibili tutto l’anno. Nell’emisfero australe sono invece sempre invisibili, tranne che in prossimità dell’equatore.

Il nome latino del Grande Carro è Septemtrio, cioè septem (sette) e triones (buoi), in riferimento alle sue sette stelle, e diventò poi sinonimo di nord (settentrione). Sempre in riferimento a questa costellazione, dalla parola greca Arktos (Orso) derivano “artico” e “Artide”.
Nei Paesi slavi e in Nord America il Grande Carro è invece noto come Grande Mestolo (Big Dipper).
La bandiera dello Stato dell’Alaska mostra il Grande Carro e la Stella Polare.

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