#109 ipotesi Sapir-Whorf (un’introduzione)

L’ipotesi Sapir-Whorf dice che la lingua che parliamo ha un profondo impatto sulla nostra visione del mondo. Una data lingua, con il suo vocabolario e con le sue strutture grammaticali, influenza il sistema cognitivo e il modo di vedere il mondo dei suoi parlanti: ne consegue che i parlanti di lingue diverse avranno diverse concezioni della realtà.
Una lingua non è solo uno strumento per esprimere idee, ma è essa stessa che dà forma alle idee e all’attività mentale dell’individuo. Senza una lingua, non solo non potremmo parlare della realtà: non potremmo neanche pensarla, perché la lingua organizza la materia amorfa del pensiero. L’esperienza umana sarebbe come una nube, confusa e indistinta, composta da un’infinità di percezioni, sensazioni e informazioni, che di per sé non hanno senso né identità precise. È il linguaggio a dare una struttura alla mente pensante e al suo modo di percepire e interpretare la realtà: suddivide il mondo percettivo in schemi e categorie logiche, lo organizza, stabilisce relazioni e legami. Il sistema di coniugazioni verbali, ad esempio, dà forma alle azioni e al loro svolgersi nel tempo.

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L’ipotesi Sapir-Whorf è una forma di relativismo linguistico, in quanto la realtà, l’esperienza umana, la conoscenza, non sono considerate valori universali, oggettivi e assoluti, bensì relativi e variabili da cultura a cultura. La lingua non è un insieme di etichette che si applica a concetti universalmente condivisi, poiché tali concetti non esistono indipendentemente da una lingua che dia loro una definizione. Il fatto che tante parole non siano perfettamente traducibili da una lingua all’altra, che non abbiano cioè equivalenti esatti, ne sarebbe una prova. Il “mondo reale” non esiste uguale per tutti, poiché è inconsciamente costruito dalla lingua di un gruppo sociale. Ogni lingua rappresenta e crea un “mondo reale” diverso da quello di ogni altra lingua.
Mentre la versione “debole” del relativismo linguistico si limita a sottolineare il profondo legame e l’interazione costante tra lingua e pensiero, la versione “forte”, attribuita a Whorf, sostiene che la lingua crei (o determini) il pensiero, unilateralmente, e per questo è chiamata anche determinismo linguistico.

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Ci sono fumetti sull’ipotesi Sapir-Whorf, sì.

Se siete come me, ora sarete colti da un entusiasmo irrefrenabile e penserete cose del tipo “Mi immagino la luna come una donna e il sole come un uomo, ma se fossi tedesco sarebbe il contrario perché la luna (der Mond) è maschile e il sole (die Sonne) femminile” (ne avevo parlato qui) oppure “Per me la neve è tutta uguale, ma gli eschimesi hanno decine di parole per descriverla e vedono ogni tipo di neve come un oggetto diverso” (e non è vero, lo accennavo qui), e altre amenità.
Ma, prima di smontare del tutto il suddetto entusiasmo, facciamo qualche passo indietro.

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Edward Sapir

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Edward Sapir (1884-1939) nasce nell’Impero germanico, in quella che oggi è la città polacca di Lębork, da una famiglia di ebrei lituani in cui si parla Yiddish come prima lingua. Durante la sua infanzia, la famiglia si trasferisce prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, e si stabilisce infine a New York. Al college studia filologia germanica e antropologia. Partecipa a un seminario dell’antropologo Franz Boas (1858-1942), che lo introduce alle lingue dei nativi americani e inuit.

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Due parole su questo Franz Boas: di origine tedesca, è considerato il padre dell’antropologia americana. È tra i primi ferventi oppositori del razzismo scientifico, che giustificherebbe l’inferiorità di certe “razze” umane su basi biologiche. Rifiuta inoltre l’idea che determinate culture siano “primitive” o “meno evolute” rispetto ad altre, poiché non esiste un percorso evolutivo, simile per ogni popolo, lungo il quale si possano collocare culture più o meno elevate, o giuste, o migliori. Boas introduce il concetto di relativismo culturale, secondo il quale le altre culture non vanno studiate in base ai nostri criteri, e ogni persona (con le sue idee, valori, credenze, comportamenti) va giudicata relativamente al contesto culturale a cui appartiene e non in modo assoluto. L’antropologia, per Boas, è lo studio combinato di quattro campi: le caratteristiche fisiche e biologiche, gli aspetti culturali e le usanze, le testimonianze archeologiche, e la lingua. Sostiene che sia impossibile comprendere una cultura senza conoscerne direttamente la lingua. Con questa impostazione, contribuisce a incoraggiare gli studi e le documentazioni delle lingue native americane.

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Sapir, col cappello.

Torniamo al nostro Sapir, che fa ricerche sul campo e studia le lingue Chinook, Takelma, Shasta Costa, Yana, Ute, ecc. Lavora inoltre sulle relazioni storiche tra le lingue indigene americane e alla loro classificazione in famiglie. Pubblica un’introduzione alla linguistica dal titolo Language nel 1921, continua a occuparsi di antropologia, si interessa di psicologia, scrive poesie.
Ha problemi di cuore, e muore nel 1939 a soli 55 anni.

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Benjamin Lee Whorf, di cui non ho trovato una foto ad alta risoluzione.

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Benjamin Lee Whorf (1897-1941) è un ingegnere chimico. Uomo spirituale e interessato alla teologia, si dedica nel tempo libero all’analisi di testi biblici e impara l’ebraico. Nasce probabilmente qui la sua passione per la linguistica. Comincia a studiare numerose lingue native americane (Nahuatl, Piman, Tepecano, ecc.). Linguista autodidatta, svolge ricerche, scrive articoli, e si fa un nome nell’ambiente. Mantiene il suo lavoro presso una compagnia assicurativa (Hartford Fire Insurance Company), per la quale gira l’America ispezionando impianti produttivi in merito alla prevenzione incendi, e si iscrive all’università di Yale, dove segue il corso di linguistica nativa americana di Edward Sapir (e dove, tra l’altro, non arriverà mai a conseguire la laurea in linguistica).
Ma la sua salute non è solida quanto il suo amore per le lingue, e il nostro linguista dilettante muore di cancro a soli 44 anni.

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Una (presunta) citazione di Whorf con una foto di Sapir. Benissimo. (fonte)

Potremmo ridicolizzare quest’uomo per non essere un vero linguista («Torna alle tue stupide assicurazioni, Benny!») ma non lo faremo. Anzi, ne elogeremo senza riserve la passione e l’eclettismo intellettuale, la mente creativa, l’ardita sfacciataggine. Bisogna dire, tuttavia, che l’accuratezza non era il suo forte. Va anche ricordato che la maggior parte dei suoi scritti furono pubblicati, diffusi e discussi soltanto dopo la sua morte: negli anni, gli amici G. L. Trager, Harry Hoijer, e John Bissell Carroll pubblicarono raccolte e antologie di suoi articoli e scritti inediti e, tra l’altro, fu Hoijer a coniare l’espressione “Sapir-Whorf hypothesis” a una conferenza nel 1954. Le sue idee presero vita propria, e Whorf non poteva più rispondere alle critiche o alle richieste di chiarimenti. Molti suoi passaggi sono ambigui e hanno dato luogo a differenti interpretazioni. Tenendolo a mente, proveremo ad analizzare alcune questioni salienti – nei prossimi post.

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Un meme di Linguist Llama esprime senza mezzi termini la sua opinione sull’ipotesi Sapir-Whorf. Qua su Wellentheorie saremo più fini e più articolati, giuro.

#103 frutti (seconda parte: le bacche)

Quiz: il pomodoro

Che il pomodoro sia in realtà un frutto è abbastanza risaputo, e ci sono parecchi fumetti al riguardo. E vi dirò di più: il pomodoro è tecnicamente una bacca (berry in inglese).

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Eccolo lì, in basso a sinistra.

 

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LA QUESTIONE BACCHE

Quali sono, secondo voi, le bacche? In inglese è (all’apparenza!!) più facile, perché la parola berry (= bacca, appunto) è inclusa direttamente nel nome del frutto: raspberry (lampone), blackberry (mora), boysenberry (un ibrido tra il lampone e la mora), strawberry (fragola), mulberry (mora nera e mora bianca del gelso), blueberry (mirtillo), lingonberry o cowberry (mirtillo rosso), gooseberry (uva spina), cranberry (la bacca protagonista dei pranzi di Thanksgiving e che ha dato il nome ai Cranberries, in italiano “ossicocco, ossia mortella di palude” secondo Wikipedia).

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“Bacche”.

I frutti aggregati

In alcuni tipi di piante, ogni fiore ha più ovari, e ogni ovario forma un frutto, e i frutti si uniscono (si aggregano) per formare un unico frutto più grande, ovvero un frutto aggregato. Essendo un raggruppamento di numerosi frutti, un frutto aggregato non è, tecnicamente, un frutto, e per questo si definisce un falso frutto. Le singole parti di un frutto aggregato, però, sono frutti a tutti gli effetti, e possono appartenere a differenti tipologie.
Ad esempio, il lampone è un aggregato di drupe: un intero lampone è un frutto aggregato, cioè un falso frutto, ma ognuna delle “palline” che compongono un lampone è una drupa, cioè un frutto.
E comunque, in senso botanico, il lampone (raspberry) non ha niente a che fare con le bacche.

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Sezione di un fiore di lampone: ogni ovario si svilupperà in un singolo frutto, e l’insieme di questi frutti formerà un lampone.

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Stesso discorso per le more: una mora è un aggregato di drupe.
E le fragole?

I veri e propri frutti delle fragole sono i “semini” visibili sulla superficie della fragola. Sono acheni: un achenio è un frutto secco, semplice, che contiene un unico seme. (*Contiene* un seme, non *è* un seme: un achenio ha una buccia e una polpa e un endocarpo che *avvolgono* il seme). Ogni achenio, come ogni vero frutto che si rispetti, si sviluppa da un ovario, mentre la parte carnosa e commestibile della fragola è l’esito di un’altra parte del fiore, il ricettacolo. La fragola è dunque un aggregato di acheni (frutti secchi) con tessuto accessorio (si definisce accessorio ciò che è prodotto da parti del fiore diverse dall’ovario).
E anche la fragola (strawberry) non ha niente a che fare con le bacche.

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Il ricettacolo, che darà origine alla polpa carnosa della fragola, è circondato da carpelli sui quali si formeranno gli ovuli e successivamente gli acheni.

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I frutti multipli

Le more dei gelsi (mulberry), che fin dal nome assomigliano moltissimo alle more, a differenza di queste ultime non sono frutti aggregati, bensì frutti multipli: un frutto aggregato si genera dai numerosi ovari di un unico fiore, un frutto multiplo si forma da un’infiorescenza, cioè un raggruppamento di fiori: ciascun fiore produce un frutto e questi frutti maturano formando un’unica massa.

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Infiorescenze di gelso.
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More di gelso.

Le more dei gelsi sono composte da singole drupe e da tessuto accessorio. Altri esempi di frutti multipli con tessuto accessorio sono l’ananas (composto da bacche) e il fico (i veri frutti del fico sono i tanti piccoli acheni all’interno di quello che comunemente di considera il frutto del fico).

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Infiorescenza dell’ananas.

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Sono, invece, davvero bacche i cranberry, ciascun acino di uva, uva spina, ribes rosso e nero, i kiwi, e altri sorprendenti frutti di cui si parlerà più avanti.
Alcuni frutti “sono talmente simili alle bacche che alcuni autori li considerano varianti” (Wikipedia), ad esempio: l’esperidio (gli agrumi), il peponide (definito anche “falsa bacca”, come il melone, il cocomero o anguria, e altri). Mirtilli e banane sono considerati, a seconda delle fonti, vere bacche o false bacche, non so bene perché..

Bacche sorprendenti
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Solanacee.

La famiglia delle Solanacee comprende molte piante importanti per l’alimentazione umana: il genere Solanum (pomodori, melanzane, patate), Capsicum (peperoni e peperoncini), Physalis (alchechengi), Lycium (bacche di Goji). Le Solanacee producono frutti che sono bacche: i pomodori, le melanzane, i peperoni e i peperoncini, gli alchechengi, sono tutte bacche. Ovviamente le bacche di Goji sono bacche.

Ma allora la patata è un frutto?

No, le patate sono tuberi, come i topinambur. “Un tubero è una porzione di fusto modificata che assume un aspetto globoso più o meno allungato e la funzione di organo in cui vengono accumulate sostanze di riserva” (Wikipedia).
La pianta della patata, però, produce frutti: sono bacche che assomigliano un po’ ai pomodori ma non sono commestibili perché contengono grandi quantità di solanina che è un alcaloide tossico.

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Fiori e frutti di patata.
La zucca è un frutto?
E le zucchine?
E che dire dei cetrioli?

La famiglia delle Cucurbitacee comprende il cocomero e il melone (che, lo sappiamo, sono frutti) e la zucca, le zucchine e i cetrioli (che, sì, sono frutti).
Le Cucurbitacee sono piante erbacee, che non hanno fusto legnoso bensì strisciante o rampicante, e producono frutti che sono pepònidi: modificazioni della bacca, hanno la polpa carnosa, e contengono numerosi semi.

Ma le zucchine non hanno i semi!

Le zucchine vengono raccolte quando sono ancora immature: se lasciate sulla pianta, diventano molto più grandi e sviluppano al loro interno semi legnosi simili a quelli di meloni e zucche.

#101 frutti (prima parte)

Un cuoco e un botanico avrebbero probabilmente grosse difficoltà a comunicare tra loro: il lessico culinario e quello scientifico-botanico parlano spesso delle stesse cose con parole diverse, e usano le stesse parole con significati diversi.

Frutta e verdura

In cucina, le verdure, o ortaggi, si usano tipicamente per le portate principali, dal gusto salato, spesso dopo la cottura. La frutta, al contrario, è zuccherina, si può consumare senza cottura, e si può usare per preparazioni dolci.
In botanica, invece, la definizione di “frutto” è ben diversa, mentre il termine “verdura” non esiste: quelle che chiamiamo “verdure” possono essere varie parti della pianta: foglie (lattuga, radicchio, rucola, valeriana, spinaci, cavolo cappuccio, verza), fusti o parti del fusto (sedano, asparago, finocchio), radici (carote, ravanelli, barbabietola, rapa, patata americana), tuberi (patata, topinambur), bulbi (aglio, cipolla), infiorescenze immature (cavolfiore, broccolo, broccolo o cavolo romanesco, carciofo). E soprattutto, molte “verdure” sono, in realtà, frutti.

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E i funghi?

Porcini, finferli, prataioli, champignon,… I funghi non sono né frutti né “verdure”, perché non sono vegetali: fanno parte di un regno tutto loro, quello dei funghi, appunto, a cui appartengono anche il lievito di birra e (udite udite!!) il tartufo, che è un fungo ipogeo (ovvero che si sviluppa sotto il terreno).

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Per semplificare l’ampia e complessa questione frutti, in questo e nei successivi post (e temo che saranno parecchi perché la cosa mi appassiona) ci si limiterà ai frutti (o alle parti di frutti) che sono commestibili e si usano abitualmente per l’alimentazione umana. Infatti, mentre in cucina la frutta è tutta cibo, in botanica non esiste una regola predefinita: frutti, semi, foglie, e qualsiasi altra parte della pianta, possono variare dall’edibile al tossico, dal gustoso al vomitevole, indipendentemente dalla classificazione scientifica.

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(Fonte)

Si noti che in cucina si parla di frutta, mentre in botanica di frutto e frutti. “Frutto” viene dal latino classico frūctus, da cui deriva fructum, in latino medievale, e il suo plurale fructa, che diventa in italiano il nome collettivo femminile “frutta”. Frūctus viene a sua volta dal verbo latino frui, “godere”. Frui è anche all’origine di “fruire” e “frumento”. E, indovinate un po’, i chicchi di frumento sono frutti.

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Gli stranieri hanno spesso difficoltà con le doppie e con queste stranezze dell’italiano (i frutti, la frutta), come dimostra questo menù che ho fotografato in vacanza.

Il frutto

Tutto comincia dal fiore. (Del sesso dei fiori avevo già parlato qui). Gli organi maschili dei fiori producono polline, che quando raggiunge gli ovuli all’interno dell’ovario (organi femminili) li feconda. Dopo la fecondazione, l’ovario si trasforma e si gonfia: diventa frutto, e al suo interno ci sono i semi. Il frutto ha soprattutto il ruolo di proteggere e nutrire i semi durante il loro sviluppo.
Per inciso, soltanto le piante Angiosperme producono fiori e frutti.

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Primo indizio per distinguere i frutti in senso botanico dalle generiche verdure: i frutti contengono semi.
In realtà non sempre: tipo, le banane diffuse oggi a scopo alimentare in genere non contengono semi vitali. (Discorso interessantissimo, quello della riproduzione delle banane: ne parlerò prossimamente).

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Il frutto è formato da:
esocarpo o epicarpo: la buccia, lo strato protettivo esterno del frutto
mesocarpo: la polpa, la parte intermedia del frutto
endocarpo (chiamato nòcciolo se è legnoso): la porzione interna che racchiude il seme.
L’insieme dei tre strati costituisce il pericarpo, che avvolge il seme. Nell’estrema varietà di tipologie di frutti, i tre strati non sono sempre ben distinti tra loro e possono presentare composizioni e consistenze molto diverse.

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Ad esempio: pesca, albicocca, ciliegia, prugna, mango, avocado, oliva (sì, le olive sono frutti!!) sono drupe. La drupa è un tipo di frutto carnoso in cui l’esocarpo (la buccia) è sottile, il mesocarpo (la polpa) è succoso, l’endocarpo (il nòcciolo) è legnoso e contiene un unico seme.
Nella bacca, invece, che è un altro tipo di frutto carnoso, l’endocarpo è spesso fuso con il mesocarpo, e i semi sono numerosi.
Nell’esperìdio (un altro frutto carnoso che a volte è considerato una sottocategoria della bacca), che poi sono gli agrumi, l’esocarpo è sottile (è la parte colorata della scorza), il mesocarpo (la “polpa”) è la parte bianca e spugnosa della buccia, e l’endocarpo è diviso in spicchi contenenti succo e semi.
Drupa, bacca ed esperidio sono tre tipi di frutti semplici, cioè originati dall’ovario di un unico fiore.

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Il falso frutto

Il vero frutto è originato esclusivamente dall’ovario del fiore. Se invece alla formazione della massa del frutto contribuiscono altre parti del fiore, si parla di falso frutto, pseudofrutto, pseudocarpo, o frutto accessorio.

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Un insospettabile falso frutto è il frutto per eccellenza, protagonista di racconti mitologici, episodi biblici, proverbi e loghi celebri: la mela.

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Dal fiore alla mela.
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Dal fiore alla mela.

Mela (apple), pera (pear), mela cotogna (quince) e nespola (medlar) sono esempi di pomo, un tipo di falso frutto in cui la polpa carnosa che mangiamo deriva dall’accrescimento del ricettacolo del fiore. Il vero frutto, risultato dell’ovario, è quello che comunemente chiamiamo torsolo: presenta i tre strati del pericarpo e avvolge i semi.

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Sezione di una mela.

#94 dylan dog

Mi chiamo Dog, Dylan Dog.

Come accennavo nell’articolo su Atlantide, una delle mie passioni sono i fumetti. E non posso parlare di fumetti, in Italia, senza affrontare uno degli argomenti che mi stanno più a cuore: Dylan Dog.

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La prima copertina di Dylan Dog.

Potrei parlarne per giorni; partendo dalla sua ideazione, sino al declino degli ultimi anni, ci sono così tante cose da dire su Dylan Dog che trascendono il fumetto stesso, mescolandosi con la cultura italiana di fine anni Ottanta.
Ma, essendo su Wellentheorie, mi concentrerò su tutti i fun fact e le piccole notizie che riguardano il personaggio di Dylan e il suo mondo.

  1. Dylan Dog è stato creato da Tiziano Sclavi che, all’epoca, era uno scrittore della Sergio Bonelli Editore. Nel 1986, basandosi sul personaggio che aveva ideato per Dellamorte Dellamore (romanzo all’epoca inedito), creò il più famoso indagatore dell’incubo della storia.
  2. Il nome è ispirato a Dylan Thomas, poeta e drammaturgo gallese [anche Bob Dylan, il cui vero nome è Robert Zimmerman, si è ispirato a Dylan Thomas per la scelta del nome d’arte], mentre il cognome nasce dalla passione di Sclavi per i cani (ne possiede ben sette nel momento della stesura dell’articolo). La doppia iniziale uguale (D.D.) è un classico dei fumetti (Bruce Banner, Donald Duck, Mickey Mouse, Peter Parker o lo stesso bonelliano Nathan Never).
  3. Le fattezze del volto di Dylan Dog sono state ideate ispirandosi a quelle dell’attore Rupert Everett – attore che poi interpreto Francesco Dellamorte, il protagonista del film tratto dal romanzo di Sclavi, Dellamorte Dellamore.

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    Rupert Everett in Dellamorte Dellamore (1994).
  4. A proposito di film, ci sono in giro alcuni fan film interessanti. Quello che ha riscosso maggiore successo di critica (e che è stato finanziato tramite una campagna di crowdfounding) è Vittima degli Eventi che trovate QUI.
  5. Purtroppo esiste anche un film ufficiale di Dylan Dog, uscito nel 2011: Dead of Night, con Brandon Routh (attore famoso per il ruolo di Superman in Superman Returns). Il film è così brutto che un episodio di True Blood, a confronto, merita l’oscar.

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    Brandon Routh nei panni di Superman, assieme a tutti gli altri Superman della storia cinematografica e televisiva.
  6. Nel film, per altro, ci sono varie differenze con il fumetto originale. Alcune per scelta di sceneggiatura (esempio: Dylan Dog vive a New Orleans e non a Londra), altre per motivi decisamente buffi. Il più simpatico è il mancato utilizzo di un Maggiolone come auto di Dylan: infatti, dal 1968 la Walt Disney detiene i diritti cinematografici per i Maggioloni bianchi!

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    Herbie, il maggiolino della Disney – nessun altro film può mostrare un maggiolone bianco, senza pagare i diritti.
  7. Sempre nel film, l’assistente di Dylan Dog non è Groucho, ma un tizio a caso. Tuttavia, non è la prima volta che Groucho viene eliminato dal fumetto: nell’adattamento del 1999 della Dark Horse (editrice americana che ha stampato una manciata di numeri), Groucho perde i baffi e diventa Felix.
  8. Dylan Dog non è l’unico personaggio Bonelli a essere stato pubblicato dalla Dark Horse nel 1999: lo stesso onore è spettato a Nathan Never e Martin Mystère.
  9. Ma come si pronuncia Dylan Dog? Mi ricordo che quando ero ragazzino, alle medie, eravamo tutti un po’ divisi. Si sa, all’epoca l’inglese per gli italiani era una lingua lontana, non esistevano le serie tv in lingua originale e molti di noi studiavamo francese a scuola. Alcuni lo pronunciavano Dailan, altri Dilan. Fu proprio il fumetto a chiarire questo dubbio, nel numero 19, Memorie dell’invisibile: Bree Daniels, una prostituta che Dylan conosce durante l’arco della storia, lo chiama Dailan (scritto proprio così), beccandosi come risposta un “mi chiamo Dylan, come Bob Dylan”.
  10. Bree Daniels, per altro, credo abbia il primato (ma non ho dati certi, quindi se è una castroneria segnalatemelo) di primo personaggio in un fumetto italiano a morire di AIDS (nel numero 88, Oltre la morte).
  11. Come tutti gli eroi dei fumetti, Dylan Dog ha alcuni “superpoteri”:
    1. Possiede quello che lui definisce un “quinto senso e mezzo”, qualcosa simile (ma in maniera ridotta come portata) ai “sensi di ragno” di Spiderman; è, cioè, la capacità di capire che qualcosa non torna.
    2. Ogni volta che vede una bella ragazza (e nel 90% dei casi ci finisce a letto)… se ne innamora. Non il migliore dei superpoteri.
    3. Possiede la capacità di dimenticarsi costantemente la pistola quando si reca in un luogo pericoloso a indagare. Anche questo non uno dei poteri più utili, ma ottimo come espediente per rendere partecipe dell’azione Groucho (che tipicamente gliela lancia appena in tempo), che altrimenti sarebbe stato relegato a spalla comica.
  12. Dylan Dog suona uno strumento musicale: il clarinetto. Il passo più celebre che suona è Il trillo del diavolo, una sonata di Giuseppe Tartini.
  13. Il “date” perfetto di Dylan Dog è: cinema con horror b-movie, poi pizza e coca cola. Tipicamente, non l’appuntamento sognato dalle ragazze.
  14. Un altro personaggio davvero importante della storia di Dylan Dog è il commissario Bloch, le cui origini ci permetteranno di entrare nel vivo del parallelismo più azzardato della storia di questo blog. Bloch, infatti, ha le fattezze dell’attore Robert Morley. Le Morley sono il nome delle sigarette che “The Smoking Man” fuma in X-Files (brevissimo funfact dentro il funfact: le Morley sono un fake-brand che appare in moltissime opere: Breaking Bad, Law & Order, LostThe Walking Dead, Buffy the Vampire Slayer, in molte altre serie tv e film; la loro prima apparizione conosciuta risale al film Psycho – qui la lista completa).

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    La lunga storia delle Morley.
  15. Qual è il parallelismo? Ma ovvio: Dylan DogFox Mulder!
    1. Entrambi hanno un passato misterioso (beh Dylan ha quello più strano, provenendo da un’altra epoca);
    2. Entrambi non sanno chi è il loro vero padre;
    3. Entrambi scoprono, a un certo punto, che il loro vero padre è anche il loro antagonista principale (da una parte Xabaras, dall’altra, appunto The Smoking Man);
    4. Tutti e due sono personaggi dallo sguardo malinconico, dalla mente acuta e dalla curiosità sfrenata per il paranormale;
    5. Tutti e due vengono presi di mira e derisi per i casi che decidono di seguire;
    6. Tutti e due hanno un mentore che li aiuta come può, e che rischia costantemente il posto per aiutarli (Bloch da una parte, Skinner dall’altra);
    7. Tutti e due bevono tè! Dylan Dog lo beve caldo, quando va al pub con Bloch (essendo un ex alcolista, non si avvicina mai all’alcol), mentre la bevanda preferita di Mulder è il tè freddo;
    8. Entrambi hanno dei “problemi” con il sesso: Dylan Dog finisce a letto con una donna differente in ogni numero, Mulder invece è un avido collezionista e consumatore di film e riviste porno;
    9. Sia Dylan che Fox hanno dei collaboratori capaci di andare “oltre” le regole del gioco. Dylan si rivolge spesso a personaggi come medium (Madame Trelkovski) e scienziati (professor Adam), mentre Mulder si rivolge ai The Lone Gunmen, tre hacker;
    10. Nell’episodio 5×15 di X-Files, in un flashback ambientato nel 1990 si vede al dito di Mulder una fede; anche Dylan Dog è stato sposato, con Lillie Connoly, irlandese e militante nell’I.R.A.

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      I tre “Pistoleri Solitari” (The Lone Gunmen: Frohike, Langly e Byers) con Mulder.
  16. Tornando ai fun fact su Dylan Dog: ne esistono svariati videogiochi, il primo risale addirittura al 1988, mentre il più recente è del 1999 ed è stato sviluppato a Genova, la mia terra natia.
  17. Tutti quanti ci ricordiamo gli 883 (e chi ha la mia età probabilmente ha come macchia nel passato l’aver ascoltato / ballato / addirittura forse acquistato uno dei primi album). La copertina del loro terzo album, La donna, il sogno & il grande incubo, uscito nel 1995 è un omaggio a Dylan Dog (con Max Pezzali nei panni di Dylan… come direbbe Marina Massironi… brrrr rabbrividiamo).883_-_La_Donna_Il_Sogno_&_Il_Grande_Incubo
  18. Molti dei numeri di Dylan Dog sono ispirati a classici del cinema o della letteratura horror. Basti pensare al titolo del numero 1, L’alba dei morti viventi, chiaro omaggio a Dawn of the dead, primo film zombie di George Romero.
  19. Tuttavia a volte capita anche il contrario: il numero 24 di Dylan Dog si intitola I coniglio rosa uccidono, ed è citato (sia nel titolo che in qualche modo nei contenuti) ne La notte eterna del coniglio, scritto da Giacomo Gardumi ed edito da Marsilio Editore nel 2006.
  20. Per finire, un fun fact che farà contenta la nostra Wellenina: Dylan Dog è vegetariano, ama gli animali e spesso è stato usato nelle campagne animaliste contro l’abbandono degli animali durante l’estate.

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    Dylan Dog animalista.

Con questo direi che ho concluso. Se ne avete altri, ovviamente, segnalate nei commenti!

#93 gold rush

Succedeva nell’Ottocento, in qualche zona ancora mezza inesplorata del Canada o degli Stati Uniti, che si scoprisse un grande giacimento d’oro: la notizia si diffondeva in fretta e arrivavano da tutto il mondo immense ondate di lavoratori in cerca di fortuna. Questa è una gold rush.

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Cercatori d’oro nel Klondike.

Una delle più celebri è la corsa all’oro del Klondike, tra il 1896 e il 1899. Il Klondike è una regione del Territorio dello Yukon (Yukon Territory), nel Canada nord-occidentale, accanto al confine orientale dell’Alaska. Prende il nome dal fiume Klondike, un affluente del fiume Yukon. Lo Yukon (Yukon River) è un fiume che nasce nell’omonimo territorio canadese, attraversa l’Alaska e sfocia nel Mare di Bering.

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Il fiume Yukon.

Il fiume Yukon è stato luogo, nel 1965, di una delle spedizioni di Walter Bonatti (1930 – 2011), “alpinista, esploratore e giornalista italiano”. L’esperienza è raccontata in uno dei suoi libri (credo in In terre lontane). Ne approfitto per segnalare un documentario molto bello di un ragazzo che ha rifatto una spedizione analoga, pagaiando in canoa da solo per 1.400 chilometri.

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Walter Bonatti in canoa sullo Yukon.

Vi svelo una cosa: lo Yukon NON è lo Yucatán.

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Lo Yucatán è fighissimo per una serie di motivi:

1. “Sotto lo Yucatán è sepolto il cratere di Chicxulub, un enorme cratere formatosi molto probabilmente 65 milioni di anni fa con la caduta del meteorite che secondo alcune teorie scientifiche avrebbe portato all’estinzione dei dinosauri” (Wikipedia).

2. “Prima dello sbarco dei conquistatori spagnoli nella regione, lo Yucatán era una delle regioni più prospere dell’Impero Maya e conserva alcuni resti archeologici risalenti a più di tremila anni fa.”

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Il sito archeologico maya Uxmal, tanto per dire.

3. Nello Yucatán, come del resto in tutto il Messico, si parlano ancora lingue indigene come la lingua maya. La lingua più usata in Messico è lo spagnolo ma sono riconosciute ufficialmente ben 62 lingue amerindie.

Vi svelo un’altra cosa: lo Yucatán è UNO degli stati del Messico. Eh sì, perché il Messico è una Repubblica federale che comprende 31 stati. Trentuno, e io non lo sapevo. Non per niente, il nome ufficiale del Messico è Stati Uniti Messicani (in spagnolo Estados Unidos Mexicanos).

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Ma non divaghiamo: stavamo parlando della corsa all’oro del Klondike.

Nell’estate del 1897 anche lo scrittore californiano Jack London (1876 – 1916) viene a conoscenza della scoperta di ricchi giacimenti d’oro nel Klondike e parte con un amico per unirsi alla corsa all’oro. L’anno successivo torna a casa con un sacchetto d’oro che non lo arricchisce, ma le avventure vissute ispireranno molti dei suoi scritti, tra cui i suoi due romanzi più celebri, Il richiamo della foresta (The Call of the Wild) e Zanna Bianca (White Fang), entrambi ambientati nel Territorio dello Yukon al tempo della corsa all’oro.
Un paio di curiosità su Jack London (da tenere a mente per dopo):
1. Jack London era uno degli scrittori preferiti di Christopher McCandless;
2. Jack London appare in un capitolo della Saga di Paperon de’ Paperoni, intitolato Cuori nello Yukon (Hearts of the Yukon), nel quale si racconta del giovane Paperone, all’epoca cercatore d’oro nel Klondike.

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Jack London

Uno degli ultimi libri di Jules Verne (1828 – 1905), Il vulcano d’oro (Le Volcan d’Or), scritto nel 1899 ma lasciato incompleto e successivamente pubblicato postumo, è ambientato durante la corsa all’oro e racconta di due cugini canadesi e delle difficoltà che incontrano cercando fortuna nel Klondike.

La febbre dell’oro (The Gold Rush) è un celebre film muto diretto, interpretato e prodotto da Charlie Chaplin (1889 – 1977) nel 1925, che segue le vicende di un cercatore d’oro. In una delle scene più famose, il protagonista, nella miseria più disperata, cucina e mangia una scarpa.
Gossip su Charlie Chaplin: l’attrice Lillita MacMurray (1908 – 1995), nota col nome d’arte di Lita Grey, era stata scelta per il ruolo della protagonista femminile. Aveva sedici anni e aveva già recitato con Chaplin nel primo lungometraggio di quest’ultimo, Il monello (The Kid), del 1921.

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Lita Grey ne Il monello.

E poi Wikipedia dice: “in breve intrecciò una relazione col protagonista. A sei mesi dall’inizio della lavorazione del film, Lita rimase incinta di Chaplin il quale, per evitare lo scandalo, si trovò costretto a sposarla”. Lita Grey diventa così la sua seconda moglie e la madre di due dei suoi figli: Charles Jr. (1925) e Sydney Earle (1926). Intanto viene trovata un’altra attrice, Georgia Hale, per rimpiazzare Lita Grey nel film. Il matrimonio non è però felice e i due chiedono presto il divorzio.

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Charlie Chaplin, Charles Jr. e Lita Grey.

Gossip letterario su Charlie Chaplin e Lita Grey: sembra che i due abbiano in parte ispirato Vladimir Nabokov per il romanzo Lolita (1955). La loro differenza di età era notevole (lei sedici anni e lui trentacinque all’epoca del matrimonio) e il vero nome dell’attrice, Lillita, assomiglia parecchio a Lolita. E ci sono altri dettagli a sostegno di questa ipotesi (il primo ragazzo di Lolita si chiamava Charlie, alla fine del romanzo Lolita si trasferisce in Alaska, ambientazione de La febbre dell’oro, Humbert Humbert porta baffi simili a quelli di Chaplin, entrambi giocavano a tennis, sembra che Chaplin apprezzasse molto le ragazzine, eccetera).

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Il giovane Paperon de’ Paperoni con Doretta Doremì e una grande pepita d’oro.

Ma torniamo alla corsa all’oro: vi ha preso parte anche Paperon de’ Paperoni (in originale Scrooge McDuck. Un giorno farò un post con tutti i nomi originali dei personaggi di fumetti e cartoni americani). Paperone infatti non è nato ricco, anzi: è originario di Glasgow, e lì faceva il lustrascarpe. Insomma, è un immigrato e da ragazzo ha fatto i lavori più umili. Nelle miniere d’oro nel Klondike ha guadagnato il suo milione, e ormai ricco si trasferisce poi a Paperopoli (Duckburg).
Curiosità a caso su Paperone: la sua prima apparizione è del 1947, è stato creato da Carl Barks, è ispirato a Ebenezer Scrooge, il protagonista di Canto di Natale di Charles Dickens (ricco, avaro, e emotivamente arido).

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Felice Pedroni

Un altro immigrato che ha fatto fortuna nella corsa all’oro del Klondike è Felice Pedroni (1858 – 1910). Nato a Trignano, una frazione del piccolo comune di Fanano nell’Appennino modenese, ultimo di sei fratelli, rimane presto orfano di padre ed emigra prima in Francia e poi negli Stati Uniti, dove si ispanizza* il nome e si fa chiamare Felix Pedro. Fa diversi lavori finché, stanco di rischiare la vita per pochi soldi, nel 1894 viene preso dalla febbre dell’oro e va a cercare fortuna esplorando tra l’Alaska e il Canada.

*Nonostante il controllo ortografia non lo accetti, giuro che “ispanizzare” esiste, e ho le prove.

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Lo so che non mi credevate.

Nel 1902 Felix Pedro scopre un ricco filone aurifero nel fondo di un torrente, che da allora viene chiamato Pedro Creek, nei pressi dell’insediamento di Fairbanks, che all’epoca era poco più di una baracca.

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Il Pedro Creek.

In poco tempo la scoperta dell’oro attrae un grande numero di immigrati e vengono quindi poste le basi della città che ha oggi più di trentamila abitanti. Fairbanks è infatti la seconda città più grande dell’Alaska, dopo Anchorage, porto navale sulla Baia di Cook. Nessuna delle due è la capitale dell’Alaska, che invece è Juneau, e ha molti meno abitanti. L’aggettivo per dire “dell’Alaska” in inglese è alaskan, e gli abitanti “dell’Alaska” sono gli alaskans, ma non riesco a trovare un equivalente in italiano (a parte “eschimesi” o “aleutini” che però sono nomi di popolazioni/etnie che si trovano anche nel territorio dell’Alaska).

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Ma torniamo alle vicende di Felix Pedro, che torna in Italia nel 1906 e si innamora di una maestra. Lei però si rifiuta di sposarlo, allora lui torna in Alaska e sposa l’irlandese Mary Ellen Doran. Felix Pedro muore a Fairbanks a soli 52 anni, per cause apparentemente naturali, ma si sospetta avvelenato dalla moglie. Il suo corpo viene sepolto in California, e circa sessant’anni dopo ritrovato e trasferito nel cimitero di Fanano nel 1972.

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Da Fanano a Fairbanks.

 

È passato da Fairbanks anche Christopher McCandless, che ci è arrivato in autostop dal North Dakota nell’aprile 1992. Da lì è andato in direzione dell’Alaska, finché ha trovato un autobus abbandonato: lo ha chiamato Magic Bus e ci ha vissuto per un centinaio di giorni. Poi è morto perché ha mangiato una pianta avvelenata.

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Christopher McCandless in un autoscatto davanti al Magic Bus.

Nel 1997 l’alpinista e scrittore Jon Krakauer pubblica Nelle terre estreme (Into the Wild), che ricostruisce e racconta il viaggio di Christopher McCandless a partire dal suo diario e dai racconti delle persone che lo hanno incontrato lungo il percorso. Il libro diventa un bestseller e nel 2007 Sean Penn ne fa il film Into the Wild – Nelle terre selvagge.