Hudson e il passaggio a nord-ovest

Henry Hudson era nato in Inghilterra attorno al 1570, e faceva l’esploratore. Intraprese vari viaggi con lo scopo di trovare un passaggio a nord-ovest che collegasse l’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico e che avrebbe permesso di navigare dall’Europa all’Asia attraverso il Mar Glaciale Artico.
Era dalla fine del Quattrocento che questa rotta veniva cercata senza successo, e Henry Hudson non fece eccezione.

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(Mappa da Mapswire, CC BY 4.0, modificata da Wellentheorie)

Nel 1609 Henry Hudson ottenne dei finanziamenti della Compagnia Olandese delle Indie Orientali e partì a bordo della Halve Maen (“Mezzaluna”) andando a esplorare la costa orientale del Nord America, tra cui le zone che attualmente chiamiamo Cape Cod, il Maine, le città di New York e Albany.

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Sì, esistono dei meme su Henry Hudson. (Da un tweet di Albany Archives).

L’anno successivo, finanziato stavolta dagli inglesi e a bordo della Discovery, raggiunse le coste dell’attuale Canada e navigò per uno stretto e una baia che presero i nomi di Stretto di Hudson e Baia di Hudson (Hudson Strait e Hudson Bay).

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I viaggi di Henry Hudson (il primo in rosso, il secondo in blu).

All’epoca non c’era Google Maps e, quando navigavi in uno stretto e entravi in una baia, non sapevi dove ti avrebbe portato: magari in Asia, magari bloccato tra i ghiacci.

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Su Twitter esistono almeno un paio di simpatici account a nome di Henry Hudson. (Fonte)

«A novembre la nave rimase intrappolata nei ghiacci nella Baia di James [un’insenatura della baia di Hudson], cosicché l’equipaggio sbarcò a terra per passare l’inverno. Quando il ghiaccio si sciolse nella primavera del 1611, Hudson avrebbe voluto continuare l’esplorazione, ma l’equipaggio voleva tornare a casa. Alla fine la crisi sfociò nell’ammutinamento dell’equipaggio nel luglio del 1611, e Hudson, suo figlio e altri uomini vennero abbandonati alla deriva in una piccola barca.» E qui Wikipedia conclude, lapidaria, così: «Non furono più visti».

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L’ironia su Twitter.

Dopo i fallimenti di Henry Hudson, si continuò a cercare il passaggio a nord-ovest.
Tra i primi a trovarlo ci fu il norvegese Roald Amundsen (1872 – 1928), il quale annovera tra i propri meriti anche aver ispirato il nome di battesimo di Roald Dahl (ne avevo parlato qui).
Nel 1903 Roald Amundsen partì per una spedizione: la sua nave, Gjøa, attraversò la Baia di Baffin (a nord della Baia di Hudson), arrivò lungo la costa dell’isola di Re William e rimase bloccata dai ghiacci per due anni, durante i quali Amundsen e il suo equipaggio girarono in slitta nei dintorni determinando la posizione del Polo Nord Magnetico e facendo amicizia con gli Inuit. Nel 1905 la Gjøa ripartì, rimase di nuovo bloccata nel ghiaccio, e alla fine arrivò allo stretto di Bering nel 1906.
Come si può intuire, le acque attorno al Polo Nord sono spesso ghiacciate. Ma negli ultimi anni, in conseguenza del riscaldamento globale, i ghiacci sono sempre meno ghiacciati e il passaggio a nord-ovest è percorribile anche da grandi navi commerciali.

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Le esplorazioni dell’artico. Quella di Amundsen in azzurro.

Northwest Passage (Passaggio a nord-ovest), oltre a essere un romanzo del 1937 dello scrittore statunitense Kenneth Roberts, è il titolo originale della serie Twin Peaks (1990-1991) di David Lynch e Mark Frost (della quale quest’anno è uscita la terza stagione, attesa per 25 anni) ed è il titolo di un episodio della serie Fringe (stagione 2, episodio 21) ricco di atmosfere alla Twin Peaks.

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Joshua Jackson (Peter Bishop) nel suddetto episodio di Fringe: il legno sulle pareti fa subito Twin Peaks.

Ma torniamo al 1609, quando Henry Hudson, inglese temporaneamente al servizio degli olandesi, esplora l’attuale Manhattan e risale, per un tratto, il fiume che in quel punto affluisce al mare: l’attuale fiume Hudson.
Queste esplorazioni pongono le basi per il primo vero e proprio insediamento in quella zona, che è olandese e risale al 1625: si chiama Nuova Amsterdam (Nieuw Amsterdam).
Quarant’anni dopo, in seguito a una guerra tra inglesi e olandesi, Nieuw Amsterdam diventa britannica e diventa New York, in onore del Duca di York e Albany, futuro Re Giacomo II Stuart (1633-1701), ultimo re cattolico d’Inghilterra, Scozia, e Irlanda (il suo successore, o succeditrice, fu la figlia Maria II, protestante).
Nel 1673, durante una nuova guerra anglo-olandese, gli olandesi occupano la città e si affrettano a cambiarne il nome, stavolta in New Orange (in onore di Guglielmo III d’Orange, il quale, peraltro, pochi anni dopo avrebbe sposato Maria II Stuart, la figlia di Giacomo II, che poi era sua cugina di primo grado). Un anno dopo, finita la guerra, New Orange torna britannica e torna a chiamarsi New York.

Vi ho fatto uno schemino perché il discorso è complesso:
Nieuw Amsterdam New York Duca di York e Albany Re Giacomo II Stuart Nieuw Orange Guglielmo III d’Orange Maria II Stuart
(L’albero genealogico degli Stuart, martoriato dalle modifiche di Wellentheorie, è di Wdcf da Wikipedia, CC BY-SA 3.0)

Proseguirei volentieri a disquisire del fiume Hudson e dei suoi ponti ma rischio di superare ogni limite di lunghezza imposto dalla decenza e dunque ci fermiamo.
Qui trovate un video istruttivo su Henry Hudson (da cui peraltro proviene l’immagine in evidenza di questo post).


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La vera vita di Sebastian Knight

Vladimir Nabokov Vera Nabokov specchio macchina da scrivere

Ho aspettato tanto a leggere questo romanzo di Nabokov, perché il titolo non mi ispirava affatto. Forse non avevo nessun interesse a leggere la vita di Sebastian Knight. Ma il libro delude in pieno le aspettative suscitate dal titolo, e di Sebastian Knight si parla tanto ma si dice davvero poco: la vera storia al centro dell’opera è quella del fratellastro di Sebastian che, dopo la morte di quest’ultimo, si dedica alle ricerche per scriverne una biografia. Ricerche appassionate e disperate quanto inconcludenti: il narratore segue per lo più delle piste false, ingannevoli o futili, che non lo portano da nessuna parte. È una storia di deviazioni, sbagli e fraintendimenti, mistificazioni. Lungo questo viaggio scopriamo, in piccola parte, la vita di Sebastian, geniale scrittore morto in giovane età, e, in dose ben maggiore, i pensieri, le impressioni, i sentimenti, e le peripezie del narratore. Un narratore di cui, peraltro, non sappiamo niente: mentre il nome del fratello appare fin dalla copertina, quello del narratore non viene mai esplicitato (soltanto una volta viene chiamato “V.”).

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In definitiva, lo scrittore (Nabokov) scrive un romanzo che sarebbe, nella finzione letteraria, la biografia che un autore (il fratellastro, V.) ha scritto su un noto scrittore (Sebastian Knight). La biografia, tra l’altro, contiene ampie citazioni da un romanzo di Sebastian, Oggetti smarriti, che è la «sua opera più autobiografica». Inoltre V. scrive per confutare un’altra biografia di Sebastian, La tragedia di Sebastian Knight di Mr. Goodman, a suo parere inesatta e disonesta. Mi ha fatto pensare a un infinito gioco di specchi, o alle matrioske. Il libro stesso, ripensandoci dopo averlo concluso, ricorda parecchio l’ultimo romanzo di Sebastian, L’asfodelo incerto («Il tema del libro è semplice: un uomo sta morendo»). Inoltre ho letto qui che questo libro viene spesso definito una “detective story”, ma “scritta alla maniera di Nabokov, e cioè ironicamente capovolta”, cosa che ricorda da vicino La sfaccettatura prismatica, il primo romanzo di Sebastian, descritto come «un’amena parodia dello scenario di un racconto poliziesco» («a rollicking parody of the setting of a detective tale»). Il narratore, infatti, riassume e commenta i libri di Sebastian, dei quali troviamo, all’interno della narrazione, numerose citazioni.

Ho fatto uno schemino per semplificarvi la vita:

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Ma cos’è un asfodelo?

Asfodèlo o asfòdelo, anticamente chiamato asfodillo, dal greco ἀσϕόδελος, è una pianta del genere Asphodelus, della famiglia delle liliacee, che vive nei prati incolti e soleggiati.
Probabilmente a causa del colore pallido dei fiori, l’asfodelo fu associato dagli antichi greci alla morte e all’oltretomba: “secondo Omero (cfr. Odissea XI, 539, 573), le ombre dei morti si aggirano su prati di asfodelo” (Treccani). E il tema della morte è centrale ne L’asfodelo incerto, come del resto la morte di Sebastian incombe per tutto questo libro di Nabokov.

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Asfodeli

Il personaggio di Sebastian presenta diverse caratteristiche in comune con il suo autore Nabokov, come ad esempio l’abitudine di dettare ad alta voce alla propria amata che batte a macchina (Nabokov lo faceva con la moglie Vera), l’ossessione per le parole, il russo come lingua madre e l’ostinazione a scrivere nella lingua del paese di adozione, l’inglese. Entrambi sono nati nel 1899 in Russia e, dopo essere emigrati nel periodo della rivoluzione, hanno studiato a Cambridge.
D’altra parte, credo che anche il narratore abbia parecchio in comune con lui, a partire dall’iniziale: V. come Vladimir. Entrambi, Nabokov e V., vivono a Parigi (Nabokov non si era ancora trasferito negli Stati Uniti all’epoca). Come dicevo, un gioco di specchi. E anche Nabokov aveva un fratello che iniziava per S.: Sergei (di cui ho parlato qui. Sergei, come Sebastian, è morto giovane, ma dopo che il libro fu scritto). Come V. e Sebastian, anche Vladimir e Sergei si erano forse allontanati e persi di vista. Proprio il tema dello specchio e del doppio, che ricorre in Nabokov, potrebbe derivare dal rapporto di affinità e contrapposizione col fratello. Ho anche letto (qui) che Sebastian, come Sergei, potrebbe essere gay, ma onestamente non mi sembra.

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L’effetto tipo tunnel senza fine creato da due specchi paralleli ha un nome e si chiama “Infinity mirror”.

Nel brano che ho proposto qui, si dice che Sebastian «faceva quello che io penso nessun altro scrittore abbia mai fatto – ricopiava con la sua calligrafia obliqua […] il foglio già battuto, e poi lo dettava da capo». Non ho trovato informazioni in proposito, ma sono pronta a scommettere che Nabokov facesse lo stesso (anche perché gli piace l’ironia e prendere per il culo il lettore). Infine Nabokov, come sempre nelle sue opere, dissemina dettagli di se stesso e delle proprie passioni per tutto il libro: gli scacchi e le farfalle compaiono di sfuggita, e chissà quante altre cose che non ho individuato. Tra l’altro, il cognome di Sebastian è, in inglese, il cavallo degli scacchi (knight), mentre il cognome di Clare (bishop) è l’alfiere.

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Nel caso vi stiate chiedendo come si chiamano i pezzi degli scacchi in inglese.

Nel libro, i fatti sono presentati dal punto di vista del narratore e delle sue ricerche ma grossomodo nell’ordine cronologico della vita di Sebastian. L’ultimo capitolo, che tratta della sua morte, è dunque la conclusione lineare della sua storia ma rappresenta una sorta di flashback per il narratore, che ha vissuto quel momento prima di intraprendere le ricerche raccontate nel resto del libro. Quest’ultimo capitolo è, per me, un capolavoro, quasi un trucco di magia: dà un affanno sconfinato, è emozionante, e – niente spoiler, ma sappiate che Nabokov vi trolla fino all’ultimo.

 

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Vladimir Nabokov (nello specchio!) detta e Vera Nabokov scrive a macchina.

A differenza di altre sue opere, come Invito a una decapitazione di cui avevo parlato qui, si legge con facilità, ma ci vuole un po’ più di attenzione per cogliere gli “strati” meno espliciti. Questo è un libro che ha un meccanismo possente, complesso e bellissimo, e, come qualsiasi cosa di Nabokov, è scritto meravigliosamente.

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Quanto ci piacciono i giochi di specchi.

Un ultimo fun fact: ho letto qui che i Marlene Kuntz hanno scritto una canzone ispirata a un passaggio di questo libro.

citazioni accidentali: La vera vita di Sebastian Knight

Oggi, come un anno fa (qui e qui), vi propongo una citazione e un post più dettagliato (prossimamente!) su Vladimir Nabokov (che, se non l’aveste capito, è uno dei miei scrittori preferiti) e su questo suo meraviglioso romanzo.

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La vera vita di Sebastian Knight (The Real Life of Sebastian Knight) è il primo romanzo che Vladimir Nabokov, russo, scrisse in inglese. Pubblicato nel 1941, fu scritto tra la fine del 1938 e l’inizio del 1939, quando l’autore abitava a Parigi, pare, in un appartamento così piccolo da costringerlo a usare il bagno come studio (scriveva usando come scrivania una valigia appoggiata sul bidet (fonte) e la cosa che mi stupisce di più è la presenza di un bidet a Parigi).

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Nabokov. La simpatia di quest’uomo è praticamente palpabile.

Un paio di curiosità sul bidet: anche se Wikipedia sembra insinuare un’origine italiana, altre fonti lo dichiarano un’invenzione francese del primo Settecento. Tuttavia, il bidet si trova attualmente nel 40% circa delle abitazioni francesi. La percentuale è crollata negli ultimi decenni per questioni economiche e di spazio. In Italia, invece, l’installazione del bidet è stata addirittura resa obbligatoria dal Decreto ministeriale del 5 luglio 1975, articolo 7, comma 3: «Per ciascun alloggio, almeno una stanza da bagno deve essere dotata dei seguenti impianti igienici: vaso, bidet, vasca da bagno o doccia, lavabo.» Sarebbe carino se anche l’utilizzo quotidiano del bidet fosse reso obbligatorio per legge, ma non si può avere tutto dalla vita.
I tedeschi e gli inglesi sono, dice Wikipedia, tra gli europei che lo usano meno: rispettivamente il 6% e il 3%. A questo punto vi chiederei, cari lettori, se per caso avete esperienze di sesso orale con esemplari di questi popoli che volete raccontarci. Ci piacciono le storie horror.

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Volevo mettere la foto di un bidet ma alla fine ho optato per il nostro Nabokov.

Ma basta con le digressioni e passiamo senza ulteriori indugi alla citazione!

Clare aveva imparato a scrivere a macchina, e le sere estive del 1924 erano state per lei altrettante pagine infilate nel rullo e poi estratte vibranti di parole nere e viola. Mi piacerebbe immaginarla china sui tasti lucenti con l’accompagnamento di una pioggia tiepida che fruscia tra gli olmi scuri di là dalla finestra aperta, mentre la voce lenta e seria di Sebastian (lui non si limitava a dettare, diceva Miss Pratt, – officiava) va e viene attraverso la stanza. Sebastian passava la maggior parte della giornata a scrivere, ma la sua gestazione era così laboriosa che raramente la sera c’erano da battere più di due paginette nuove e anche queste dovevano essere rifatte più volte, perché l’autore si abbandonava a un’orgia di correzioni; e ogni tanto faceva quello che io penso nessun altro scrittore abbia mai fatto – ricopiava con la sua calligrafia obliqua, così poco inglese, il foglio già battuto, e poi lo dettava da capo.
La sua lotta con le parole era quanto mai tormentosa, e per due motivi. Uno l’aveva in comune con scrittori del suo genere: il bisogno di colmare l’abisso tra espressione e pensiero; la sensazione esasperante che le parole giuste, le parole uniche, aspettano sulla riva opposta, nella lontananza caliginosa, mentre i brividi del pensiero ancora ignudo le invocano da questa parte dell’abisso. Non gli servivano le frasi già confezionate perché le cose che lui voleva dire avevano una taglia eccezionale, e inoltre sapeva che nessuna vera idea può esistere veramente senza le parole tagliate su misura. Cosicché (per usare una similitudine più calzante) il pensiero, solo in apparenza nudo, implorava in realtà che gli abiti di cui era già rivestito divenissero visibili, mentre le parole appostate lontano non erano gusci vuoti, come sembravano, ma aspettavano soltanto che il pensiero in esse già celato le accendesse e le mettesse in moto. A volte lui si sentiva come un bambino cui avessero dato una farragine di fili ordinandogli di compiere il miracolo della luce. E lui infatti lo compiva; e talvolta non si rendeva neanche conto del modo in cui ci riusciva, talaltra invece tormentava i fili per ore in quella che sembrava la maniera più razionale – senza concludere nulla. E Clare, che in vita sua non aveva composto neanche una riga di prosa immaginativa o di poesia, capiva così bene (e questo era il suo miracolo personale) ogni particolare della lotta di Sebastian che per lei le parole battute a macchina non erano tanto i veicoli del loro senso naturale quanto le curve e i vuoti e gli zigzag che mostravano l’arrancare di Sebastian lungo una certa linea ideale di espressione.

Tra l’altro, «il bisogno di colmare l’abisso tra espressione e pensiero» ricorda da vicino un argomento affrontato di recente qui su Wellentherie: l’ipotesi Sapir-Whorf.

Stay tuned per il prossimo entusiasmante post.

#109 ipotesi Sapir-Whorf (un’introduzione)

L’ipotesi Sapir-Whorf dice che la lingua che parliamo ha un profondo impatto sulla nostra visione del mondo. Una data lingua, con il suo vocabolario e con le sue strutture grammaticali, influenza il sistema cognitivo e il modo di vedere il mondo dei suoi parlanti: ne consegue che i parlanti di lingue diverse avranno diverse concezioni della realtà.
Una lingua non è solo uno strumento per esprimere idee, ma è essa stessa che dà forma alle idee e all’attività mentale dell’individuo. Senza una lingua, non solo non potremmo parlare della realtà: non potremmo neanche pensarla, perché la lingua organizza la materia amorfa del pensiero. L’esperienza umana sarebbe come una nube, confusa e indistinta, composta da un’infinità di percezioni, sensazioni e informazioni, che di per sé non hanno senso né identità precise. È il linguaggio a dare una struttura alla mente pensante e al suo modo di percepire e interpretare la realtà: suddivide il mondo percettivo in schemi e categorie logiche, lo organizza, stabilisce relazioni e legami. Il sistema di coniugazioni verbali, ad esempio, dà forma alle azioni e al loro svolgersi nel tempo.

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L’ipotesi Sapir-Whorf è una forma di relativismo linguistico, in quanto la realtà, l’esperienza umana, la conoscenza, non sono considerate valori universali, oggettivi e assoluti, bensì relativi e variabili da cultura a cultura. La lingua non è un insieme di etichette che si applica a concetti universalmente condivisi, poiché tali concetti non esistono indipendentemente da una lingua che dia loro una definizione. Il fatto che tante parole non siano perfettamente traducibili da una lingua all’altra, che non abbiano cioè equivalenti esatti, ne sarebbe una prova. Il “mondo reale” non esiste uguale per tutti, poiché è inconsciamente costruito dalla lingua di un gruppo sociale. Ogni lingua rappresenta e crea un “mondo reale” diverso da quello di ogni altra lingua.
Mentre la versione “debole” del relativismo linguistico si limita a sottolineare il profondo legame e l’interazione costante tra lingua e pensiero, la versione “forte”, attribuita a Whorf, sostiene che la lingua crei (o determini) il pensiero, unilateralmente, e per questo è chiamata anche determinismo linguistico.

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Ci sono fumetti sull’ipotesi Sapir-Whorf, sì.

Se siete come me, ora sarete colti da un entusiasmo irrefrenabile e penserete cose del tipo “Mi immagino la luna come una donna e il sole come un uomo, ma se fossi tedesco sarebbe il contrario perché la luna (der Mond) è maschile e il sole (die Sonne) femminile” (ne avevo parlato qui) oppure “Per me la neve è tutta uguale, ma gli eschimesi hanno decine di parole per descriverla e vedono ogni tipo di neve come un oggetto diverso” (e non è vero, lo accennavo qui), e altre amenità.
Ma, prima di smontare del tutto il suddetto entusiasmo, facciamo qualche passo indietro.

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Edward Sapir

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Edward Sapir (1884-1939) nasce nell’Impero germanico, in quella che oggi è la città polacca di Lębork, da una famiglia di ebrei lituani in cui si parla Yiddish come prima lingua. Durante la sua infanzia, la famiglia si trasferisce prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, e si stabilisce infine a New York. Al college studia filologia germanica e antropologia. Partecipa a un seminario dell’antropologo Franz Boas (1858-1942), che lo introduce alle lingue dei nativi americani e inuit.

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Due parole su questo Franz Boas: di origine tedesca, è considerato il padre dell’antropologia americana. È tra i primi ferventi oppositori del razzismo scientifico, che giustificherebbe l’inferiorità di certe “razze” umane su basi biologiche. Rifiuta inoltre l’idea che determinate culture siano “primitive” o “meno evolute” rispetto ad altre, poiché non esiste un percorso evolutivo, simile per ogni popolo, lungo il quale si possano collocare culture più o meno elevate, o giuste, o migliori. Boas introduce il concetto di relativismo culturale, secondo il quale le altre culture non vanno studiate in base ai nostri criteri, e ogni persona (con le sue idee, valori, credenze, comportamenti) va giudicata relativamente al contesto culturale a cui appartiene e non in modo assoluto. L’antropologia, per Boas, è lo studio combinato di quattro campi: le caratteristiche fisiche e biologiche, gli aspetti culturali e le usanze, le testimonianze archeologiche, e la lingua. Sostiene che sia impossibile comprendere una cultura senza conoscerne direttamente la lingua. Con questa impostazione, contribuisce a incoraggiare gli studi e le documentazioni delle lingue native americane.

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Sapir, col cappello.

Torniamo al nostro Sapir, che fa ricerche sul campo e studia le lingue Chinook, Takelma, Shasta Costa, Yana, Ute, ecc. Lavora inoltre sulle relazioni storiche tra le lingue indigene americane e alla loro classificazione in famiglie. Pubblica un’introduzione alla linguistica dal titolo Language nel 1921, continua a occuparsi di antropologia, si interessa di psicologia, scrive poesie.
Ha problemi di cuore, e muore nel 1939 a soli 55 anni.

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Benjamin Lee Whorf, di cui non ho trovato una foto ad alta risoluzione.

Whorf

Benjamin Lee Whorf (1897-1941) è un ingegnere chimico. Uomo spirituale e interessato alla teologia, si dedica nel tempo libero all’analisi di testi biblici e impara l’ebraico. Nasce probabilmente qui la sua passione per la linguistica. Comincia a studiare numerose lingue native americane (Nahuatl, Piman, Tepecano, ecc.). Linguista autodidatta, svolge ricerche, scrive articoli, e si fa un nome nell’ambiente. Mantiene il suo lavoro presso una compagnia assicurativa (Hartford Fire Insurance Company), per la quale gira l’America ispezionando impianti produttivi in merito alla prevenzione incendi, e si iscrive all’università di Yale, dove segue il corso di linguistica nativa americana di Edward Sapir (e dove, tra l’altro, non arriverà mai a conseguire la laurea in linguistica).
Ma la sua salute non è solida quanto il suo amore per le lingue, e il nostro linguista dilettante muore di cancro a soli 44 anni.

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Una (presunta) citazione di Whorf con una foto di Sapir. Benissimo. (fonte)

Potremmo ridicolizzare quest’uomo per non essere un vero linguista («Torna alle tue stupide assicurazioni, Benny!») ma non lo faremo. Anzi, ne elogeremo senza riserve la passione e l’eclettismo intellettuale, la mente creativa, l’ardita sfacciataggine. Bisogna dire, tuttavia, che l’accuratezza non era il suo forte. Va anche ricordato che la maggior parte dei suoi scritti furono pubblicati, diffusi e discussi soltanto dopo la sua morte: negli anni, gli amici G. L. Trager, Harry Hoijer, e John Bissell Carroll pubblicarono raccolte e antologie di suoi articoli e scritti inediti e, tra l’altro, fu Hoijer a coniare l’espressione “Sapir-Whorf hypothesis” a una conferenza nel 1954. Le sue idee presero vita propria, e Whorf non poteva più rispondere alle critiche o alle richieste di chiarimenti. Molti suoi passaggi sono ambigui e hanno dato luogo a differenti interpretazioni. Tenendolo a mente, proveremo ad analizzare alcune questioni salienti – nei prossimi post.

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Un meme di Linguist Llama esprime senza mezzi termini la sua opinione sull’ipotesi Sapir-Whorf. Qua su Wellentheorie saremo più fini e più articolati, giuro.

#108 parole “intraducibili”: emozioni

Tiffany Watt Smith si occupa, tra le altre cose, di studiare e fare ricerca sulle emozioni e sulla storia delle emozioni. Sull’argomento ha scritto, nel 2015, The Book of Human Emotions, in cui riporta 154 tra neologismi e parole in varie lingue del mondo che descrivono particolari emozioni, spesso prive di equivalenti in inglese o in italiano.
C’è chi si lascia prendere la mano e sostiene che i coreani e gli scandinavi vivono emozioni diverse perché le loro lingue danno forma in modo diverso al loro emozionarsi (ne parlerò nel prossimo post), ma, in ogni caso, le stranezze linguistiche ci piacciono, gli elenchi ci entusiasmano; ecco dunque cinque delle parole “intraducibili” trattate nel sopracitato libro.

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Tiffany Watt Smith

Awumbuk

Nella lingua del popolo Baining della Papua Nuova Guinea, awumbuk si riferisce alla malinconia e al senso di vuoto che si prova quando gli ospiti che ci hanno fatto visita sono andati via.

10Papua Nuova Guinea
Eccola lì, la Papua Nuova Guinea.

L’appel du vide

“Il richiamo del vuoto”, in francese, è il pensiero o l’impulso di lanciarsi da una grande altezza, di buttarsi sulle rotaie del treno, o di girare il volante verso il precipizio oltre una scogliera o contro un ostacolo. In psicologia è chiamato anche High Place Phenomenon perché avviene perlopiù in luoghi sopraelevati, ma si tratta in generale del pensiero, improvviso e involontario, di un comportamento autodistruttivo. Non è, come si potrebbe pensare, un istinto suicida, ma è una sensazione correlata alla paura e all’istinto di sopravvivenza.

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L’appel du vide illustrato da Marija Tiurina

Circa due anni e mezzo fa avevo parlato della serie di illustrazione dal titolo Found in Translation di Anjana Iyer. Non è la sola ad aver tentato una rappresentazione visiva di parole “intraducibili”: anche Marija Tiurina ne ha illustrate quattordici, tra cui alcune per le emozioni.

2Marija Tiurina
Marija Tiurina, con un gatto.

Basorexia

La basorexia è la pulsione, il desiderio urgente e irrefrenabile di baciare qualcuno.
Non ho trovato spiegazioni sulla sua etimologia (se non che deriverebbe dal francese “baiser”, “bacio”), ma io azzarderei che deriva dal latino basium, a sua volta di origine incerta e controversa, a cui è aggiunto il greco ὄρεξις (órexis) che significa desiderio, voglia, appetito o fame, dal quale viene il suffisso italiano -oressìa, usato in medicina in relazione all’appetito e all’alimentazione (anoressìa, disoressia, licoressìa, paroressìa, iperoressìa, ortoressìa).

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La foto di Alfred Eisenstaedt

Nell’arte di tutti i tempi ci sono meravigliose opere che ritraggono baci, ma tra tutte mi è venuta in mente la celebre fotografia del marinaio e l’infermiera a Times Square, scattata il 14 agosto 1945 dopo l’annuncio della resa del Giappone (è il VJ Day o Victory Over Japan Day). Esistono in realtà almeno due foto: V-J Day in Times Square, meglio conosciuta come The Kiss di Alfred Eisenstaedt, pubblicata su Life, e un’altra, che ritrae lo stesso bacio da una differente angolazione, scattata da Victor Jorgensen e pubblicata sul New York Times.
La seconda è forse meno interessante dal punto di vista artistico, ma siccome Victor Jorgensen era un fotografo della marina americana in servizio, la foto appartiene al governo federale statunitense ed è rilasciata in pubblico dominio, e dunque l’immagine è più diffusa. Al contrario, la foto di Alfred Eisenstaedt, più bella, è protetta da copyright e il fotografo si è arricchito per ogni riproduzione.
Le facce dei due protagonisti del bacio non sono ben visibili, e negli anni parecchie persone hanno proclamato di essere il marinaio o l’infermiera. Tuttora ci sono dubbi sulle loro reali identità. Dibattuta è anche la storia dietro quel bacio: spontaneo o pianificato? Gioia patriottica festosamente condivisa oppure coercizione e slinguazzata indesiderata? Chissà.

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La foto di Victor Jorgensen

Torschlusspanik

Il “panico del cancello chiuso” è, in tedesco, l’ansia del tempo che passa troppo in fretta al confronto delle cose che dovremmo o vorremmo fare. Può essere il “ticchettio dell’orologio biologico” di una donna che ha superato i trenta e non ha figli, la “crisi di mezza età” di chi guarda avanti e vede che la vecchiaia è in arrivo, l’angoscia per le occasioni che stiamo perdendo, l’ansia per la deadline che si avvicina e ancora abbiamo troppo lavoro da fare.

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Il mio moroso vive attualmente in costante Torschlusspanik perché il suo videogioco deve uscire in autunno e non sa se riuscirà a infilarci tutte le cose fighissime che ha in testa.

Torschlusspanik (o Torschlußpanik: della lettera Eszett avevo parlato qui) è composta da Tor, cancello o portone; Schluss, chiusura o conclusione; Panik, panico.
La parola ha origine medievale, quando i castelli chiudevano i cancelli ogni sera per motivi di sicurezza oppure per prepararsi a un attacco nemico (ho trovato entrambe le versioni): non era auspicabile rimanere chiusi fuori e gli abitanti avevano l’ansia di affrettarsi a rientrare prima della chiusura.
I tedeschi usano l’espressione «Torschlusspanik ist ein schlechter Ratgeber» («Il Torschlusspanik è un cattivo consigliere») per ricordare che la fretta, l’ansia, l’impulsività di fare qualcosa all’ultimo minuto, non creano le condizioni per le decisioni migliori.

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Il Torschlusspanik illustrato da Marija Tiurina

Matutolypea

Parecchio diffusa sul web di lingua inglese ma assente nei veri dizionari, matutolypea si riferisce allo svegliarsi di cattivo umore. Non si sa chi l’abbia coniata, ma è un miscuglio di latino e greco: matuto, da Mater Matuta che, nella mitologia romana, era la dea del Mattino e protettrice delle nascite (dal suo nome deriva l’italiano mattina), e il greco λύπη (lýpi), cioè dolore, sofferenza, tristezza o infelicità. Qui la pronuncia.

3Mater-matuta.-Capua-Museo-Provinciale
Mater Matuta

E continuiamo nel prossimo post perché questo sta diventando troppo lungo. See you soon!


 

Age-otori, cafuné, culaccino, friolero, hanyauku, mamihlapinatapai, ohrwurm, pochemuchka, tingo, tsundoku, utepils: per gli appassionati di “intraducibili”, si è parlato di queste parole qui!

#106 fredric brown

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Spoiler alert!!

Questo post parla del racconto pubblicato per intero nel post precedente: se non lo avete letto, non andate oltre altrimenti vi rovinate irrimediabilmente il finale…

Sentinella (Sentry) è un racconto breve scritto da Fredric Brown nel 1954. Molto breve: poco più di 300 parole. Un piccolo capolavoro di fantascienza che è apparso in numerose antologie, tra cui Le meraviglie del possibile (1959) curata da Sergio Solmi e Carlo Fruttero.

David Douglas Duncan
Una foto scattata durante la guerra di Corea da David Douglas Duncan, che non c’entra niente, ma l’ho scelta perché risale più o meno all’epoca in cui fu scritto il racconto e ne richiama (vagamente) l’atmosfera.

La narrazione, in terza persona, assume il punto di vista del protagonista, ne descrive i pensieri e le sensazioni, e riferisce pochi fatti del passato dandoci solo una parte del contesto della vicenda. Questi pensieri e sensazioni ci appaiono del tutto condivisibili; inoltre, il protagonista è presentato come qualcuno che ha subìto una grave ingiustizia da parte di una “altra razza”, aliena, incivile, belligerante, che viene descritta come “il nemico” e “crudeli, schifosi, ripugnanti mostri”. Di conseguenza, ci viene naturale identificarci col protagonista: condividere il suo punto di vista, parteggiare per lui e per il suo popolo, contro quell’orribile nemico. Di conseguenza, ci viene naturale pensare al protagonista come uno di noi: un terrestre, un umano.
È l’ultima riga che capovolge tutto, che inaspettatamente ci costringe a riconsiderare l’intera storia, a mettere in discussione i nostri pregiudizi e la nostra visione di noi stessi. L’umano non è il buono, non è il coraggioso soldato che difende il suo popolo dagli aggressori, ma è il nemico ripugnante, feroce e sleale.

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La lotta “Uomo Vs. Mostro Alieno” sulla copertina di un numero di Worlds Unknown del 1973, contenente in realtà un altro racconto di Brown,  Arena.

La sentinella (in originale però The Sentinel) è anche un racconto di Arthur C. Clarke del 1948, che lo stesso autore ha poi ampliato ed elaborato nel romanzo 2001: Odissea nello spazio del 1968, dal quale è tratto l’omonimo film di Stanley Kubrick.
(Sentinel e Sentry sono pressoché sinonimi).

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Fredric Brown

Fredric Brown (1906 – 1972), americano, era basso di statura, rimase orfano molto giovane, amava giocare a scacchi e suonare il flauto. Nel corso della sua vita fa numerosi lavori di tutti i tipi, tra cui il fattorino, l’inserviente in un luna park e il correttore di bozze. Soffriva di asma bronchiale. Nel 1929 si sposa con Helen, dalla quale ha due figli. Più avanti divorzia, risposandosi nel 1948 con Elizabeth Charlier. Nel frattempo pubblica poesie, articoli, e soprattutto riesce a vendere a varie riviste una grande quantità di racconti polizieschi, fantastici, di mistero e di fantascienza. Scrive anche romanzi, ma si specializza nel racconto breve e brevissimo. Scrive soprattutto per intrattenere e per sbarcare il lunario, ma ha grande inventiva, senso dell’umorismo, gusto per il paradosso, idee innovative, sa creare ingegnosi intrecci e sa raccontarli con una prosa arguta, rapida ed efficace. Guadagna poco durante la sua carriera di scrittore, e non è tenuto in grande considerazione dalla critica.

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Fredric Brown

Scrittore estremamente prolifico (qui una bibliografia), è apprezzato da numerosi altri autori di fantascienza e non, tra cui Philip K. Dick, Robert Bloch, autore di Psycho, e Robert A. Heinlein, che gli ha dedicato il romanzo Straniero in terra straniera (Stranger in a Strange Land). I suoi scritti hanno anche ispirato film: ad esempio da uno dei suoi romanzi polizieschi più celebri, La statua che urla (The Screaming Mimi) sono stati tratti l’omonimo film del 1958 con Anita Ekberg e, nel 1970, L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento. Sul già menzionato racconto di fantascienza Arena, del 1944, è basato l’omonimo episodio di Star Trek (The Original Series) del 1967. Purtroppo le sue opere (e specialmente i racconti di fantascienza) non sono facilissime da trovare (la Feltrinelli, Amazon, e la mia biblioteca comunale non ne sono particolarmente forniti).

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Una scena di Arena, episodio 18 della prima stagione della serie originale di Star Trek (su Netflix è il 19, perché c’è anche l’episodio pilota che in origine venne scartato e mai trasmesso).

Non c’entra niente, ma Brown mi ha fatto venire in mente Kilgore Trout, lo sconosciuto e squattrinato scrittore di fantascienza che ricorre in vari romanzi di Kurt Vonnegut. In realtà il personaggio di Kilgore Trout è ispirato a un altro scrittore, amico di Vonnegut: Theodore Sturgeon, nome di penna di Edward Hamilton Waldo (1918 – 1985). Infatti Kilgore richiama il suono di Theodore, e Trout (trota) fa il parallelo a Sturgeon (storione). Vonnegut ha rivelato la sua fonte di ispirazione soltanto dopo la morte dell’amico, tanto che fino ad allora si era per lo più pensato che Kilgore Trout fosse un alter ego dello stesso Vonnegut.

#100 battlestar galactica (terza parte)

Dopo due lunghi post su Battlestar Galactica (questo e questo) mi sono accorta che, a distanza di quasi un anno, ho ancora un paio di cose da dire in proposito.

Katee Sackhoff, l’attrice che interpreta Kara “Starbuck” Thrace nella serie nuova di Battlestar Galactica (2004-2009), è apparsa in due episodi di Big Bang Theory, interpretando se stessa. Katee Sackhoff compare infatti nelle fantasie masturbatorie di Howard Wolowitz.

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La prima apparizione è nell’episodio La formula della vendetta / The Vengeance Formulation (S03 E09), del 2009: Howard si immagina Katee in una situazione romantica (vasca da bagno, luce soffusa, bicchieri di vino), e si scambiano il seguente dialogo, spassosissimo e contenente i soliti riferimenti nerd (Cylon e coloni sono le due fazioni contrapposte in Battlestar Galactica, e la principessa Leia, Leila nella versione italiana, è ovviamente quella di Star Wars – lo dico per i non-nerd là fuori).

Howard: So nice you could join me this evening. You’re looking lovely as always.
Katee Sackhoff: Thanks, Howard. Always nice to be part of your masturbatory fantasies.
Howard: Come on, Katee, don’t make it sound so cheap.
Katee: I’m sorry, fiddling with yourself in the bathtub is a real class act.
Howard: Thank you. So, shall we get started?
Katee: Sure. But can I ask you a question first?
Howard: You want to play Cylon and colonist?
Katee: No. I want to know why you’re playing make-believe with me when you could be out with a real woman tonight.
Howard: You mean, Bernadette?
Katee: No, I mean Princess Leia. Of course I mean Bernadette. She’s a wonderful girl and she really likes you.
Howard: I know, but she’s not you.
Katee: I’m not me. The real me is in Beverly Hills going out with a tall, handsome, rich guy […].

La seconda apparizione è nell’episodio La deviazione del troll virtuale / The Hot Troll Deviation (S04 E04), del 2010: Howard predispone la giusta atmosfera nella sua stanza e dà inizio alla tipica fantasia, ma questa volta Katee indossa l’uniforme da pilota di Viper di Battlestar Galactica. La fantasia degenera presto e si aggiungono prima Bernadette e poi George Takei.

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George Takei, Katee Sackhoff, Howard e Bernadette.

George Takei (nato nel 1937) è un attore famoso per il ruolo di Hikaru Sulu, timoniere dell’Enterprise nella serie classica di Star Trek e nei primi sei film (Sulu è interpretato da John Cho nei due film diretti da J.J. Abrams, Star Trek del 2009 e Star Trek Into Darkness del 2013).

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Hikaru Sulu

George Takei è dichiaratamente gay (nel 2008, dopo una relazione di oltre ventun’anni, ha sposato il compagno Brad Altman con rito buddhista) e si impegna come attivista per i diritti gay.

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George Takei

Quando George Takei compare nella fantasia di Howard Wolowitz, Katee chiede a quest’ultimo se ha tendenze omosessuali latenti. A quel punto George e Katee si mettono a discutere tra loro sulla difficoltà di recitare in generi diversi dalla fantascienza, essendo entrambi diventati due icone nei loro ruoli più celebri. Più avanti, al primo appuntamento con Bernadette, Katee e George fungono da “amici immaginari” che “aiutano” Howard.

La quarta stagione di Battlestar Galactica è stata prodotta e poi trasmessa divisa in due parti, separate da sette mesi di pausa, a causa dello sciopero degli sceneggiatori (WGA strike) del 2007-2008.
Lo sciopero è durato per 100 giorni, dal novembre 2007 al febbraio 2008, e ha avuto effetti significativi sul mondo televisivo americano: molte serie non hanno potuto completare la stagione come era stata prevista, ad esempio la prima stagione di Big Bang Theory ha solo 17 episodi (8 erano stati prodotti prima dello sciopero, e 9 sono stati recuperati dopo) mentre tutte le altre sue stagioni ne hanno 23 o 24. Della prima stagione di Breaking Bad sono stati prodotti solo 7 dei 9 episodi previsti, e qualcosa di simile è successo per Grey’s Anatomy (stagione 4), tutti i CSI, e un sacco di altre serie.

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Una scena di Sometimes a Great Notion, tanto per farvi capire il mood dell’episodio.

Senza la certezza che Battlestar Galactica sarebbe continuata, l’episodio Sometimes a Great Notion è stato pensato come un potenziale finale. Concluso lo sciopero, il canale Sci-Fi ha deciso di produrre altri dieci episodi fino al finale inizialmente programmato.
Sometimes a Great Notion (l’episodio 11 o 13 della quarta stagione: dipende se si considera Razor come doppio episodio di inizio stagione oppure come film separato dalla serie) è un episodio molto triste. Per mettere il cast nell’umore giusto, pare che Edward James Olmos dicesse a tutti che la serie sarebbe sicuramente stata cancellata e che quella era la fine.
Il titolo è un riferimento al secondo romanzo, pubblicato nel 1964, di Ken Kesey (1935-2001), scrittore statunitense noto soprattutto per Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest, 1962).
Sometimes a Great Notion credo che non sia stato tradotto in italiano, ma è arrivato anche in Italia il suo adattamento cinematografico, Sfida senza paura (Sometimes a Great Notion, 1971), con Paul Newman e Henry Fonda.

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Ken Kesey

Il titolo del romanzo, a sua volta, viene da Goodnight, Irene, canzone popolare americana, registrata per la prima volta da Lead Belly. Il testo parla di un amore tormentato, della tristezza e delle fantasie suicide dell’autore: Sometimes I live in the country / Sometimes I live in town / Sometimes I have a great notion / To jump into the river and drown. (“Notion” in inglese può significare, come “nozione” in italiano, conoscenza, cognizione o credenza su qualcosa, ma anche impulso e desiderio).

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Lead Belly

Avevo parlato qui, a proposito di Helo in Battlestar Galactica, dell’archetipo del “red-shirt character”. Mi autocito: «uno di quei personaggi che muoiono subito dopo la loro prima apparizione, e vengono introdotti con lo scopo di aggiungere dramma e mostrare quanto una determinata situazione sia pericolosa, senza però uccidere altri personaggi che hanno ruoli più importanti (gli spettatori devono capire che i protagonisti stanno rischiando la vita). La definizione “red-shirt character” deriva dalla serie classica di Star Trek (1966–69), in cui “the red-shirted security personnel frequently die during episodes” (lo dice Wikipedia).»

Se non sapete questa cosa, non potete cogliere citazioni e riferimenti, come in un episodio di South Park (Ai confini della realtà / City on the Edge of Forever, S02 E07) in cui lo scuolabus finisce fuori strada e rimane bloccato sull’orlo di un precipizio. Un ragazzino mai visto prima, vestito con la divisa rossa di Star Trek, esce per cercare aiuto, e viene divorato da un mostro.

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E poi non potreste capire battute e fumetti come questo, di Lunarbaboon:

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Tra l’altro, oggettivamente, anche Dylan Dog indossa una red shirt.

#99 i nabokov

Vladimir Vladimirovič Nabokov (1899 – 1977), secondo l’enciclopedia Treccani, “è noto come uno dei più perfetti scrittori moderni sia nella lingua materna [il russo], sia in inglese”. E vi faccio notare l’aggettivo “perfetto”.
Nato a San Pietroburgo in una nobile e ricca famiglia, primo di cinque figli, Nabokov ebbe un’infanzia privilegiata, immersa nell’alta cultura e in un miscuglio di russo, inglese e francese che lo rese trilingue.

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Vladimir Nabokov da bambino.
Due parole sulla Russia di quegli anni: era l’immenso Impero russo, oltremodo arretrato, patria di pochi privilegiati e milioni di miserabili, guidato dal potere assolutista dello zar. Come se non bastasse, nel 1914 entra in guerra accanto a Francia e Gran Bretagna (Triplice Intesa), e la gente non ce la fa più. Ultima goccia: arriva pure un inverno particolarmente freddo. Nel 1917 esplode la rivoluzione, che rovescia il regime zarista, e dichiara l’uscita la guerra. Le famiglie nobili e ricche, come quella di Nabokov, capiscono che per loro, a questo punto, tira una brutta aria, e se possono emigrano.

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Lenin parla al popolo russo mentre i Nabokov emigrano.
I Nabokov lasciano San Pietroburgo e vanno prima in Crimea, poi in Gran Bretagna, poi a Berlino (dove Nabokov padre viene assassinato), poi a Parigi.
A Berlino c’è una numerosa e vivace comunità di emigrati russi (gli émigré di cui si legge spesso a proposito di Nabokov). Tra questi, c’è Vera Evseevna Slonim (1902 – 1991), nata a San Pietroburgo in un famiglia ebraica, emigrata anch’essa dopo la rivoluzione. Il padre, imprenditore, fonda a Berlino una casa editrice, dove lavora la stessa Vera. Nel frattempo il nostro Nabokov scrive e pubblica (sotto lo pseudonimo di Vladimir Sirin) i suoi primi scritti in russo, le sue poesie, lavora alla traduzione in inglese di Dostoevskij, ed entra in contatto col padre di Vera. Vladimir e Vera si sposano il 15 aprile 1925. Hanno un figlio, Dmitri, nel 1934.

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Vladimir, Vera e Dmitri.
Nel frattempo, Adolf Hitler sale al potere in Germania e la sua indole antisemita si fa insistente. Vera è ebrea, e così i Nabokov lasciano Berlino e se ne vanno a Parigi. Nel 1940, mentre Hitler sta arrivando a invadere anche la Francia, si trasferiscono negli Stati Uniti, e Wikipedia racconta così questa parte della vita di Vera Nabokov: “imparò a guidare e poté quindi accompagnare suo marito in vari viaggi, specie negli Stati Uniti occidentali, a caccia di farfalle. Per proteggerlo, portava con sé una pistola. Nabokov ha scritto nei suoi libri che non sarebbe stato da nessuna parte senza di lei e tutte le sue opere sono dedicate a lei. Fu sempre lei in più di un’occasione a salvare dalle fiamme le bozze di Lolita”.
Si parla di lei anche nella canzone Come Vera Nabokov dei Cani, che dice:

Basta che mi prometti di andare in giro con la pistola per difendermi
e di tagliarmi la carne da mangiare nel piatto come Vera Nabokov

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Vera e Vladimir nel 1967.
Vera è stata per Nabokov assistente, editor, agente, stenografa, autista, e mille altre cose. Sono state pubblicate le lettere di lui a lei (Letters to Véra): scritte magnificamente, traboccano di un amore infinito, e mi fanno commuovere disperatamente. Ecco un piccolo esempio:

You came into my life — not as one comes to visit… but as one comes to a kingdom where all the rivers have been waiting for your reflection, all the roads, for your steps.

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Vladimir Nabokov a caccia di farfalle.
Negli Stati Uniti Nabokov abbandona, per le sue opere, la lingua russa, e adotta l’inglese. Traduce in inglese alcune delle opere precedenti. Insegna letteratura russa alla Cornell University di Ithaca. È anche autore di saggi di critica letteraria, e di problemi di scacchi. Lavora all’organizzazione della collezione di farfalle al Museo di Zoologia Comparata dell’università di Harvard e pubblica diversi scritti di entomologia, in particolare riguardo ai Polyommatini della famiglia Lycaenidae. Inoltre, fa spesso disegni di farfalle immaginarie, dedicate a Vera, al figlio o agli amici.

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Una farfalla immaginaria disegnata da Nabokov.
Figlio unico, Dmitri Vladimirovič Nabokov (1934 – 2012), dice Wikipedia, “è stato un basso e traduttore statunitense”.
“Basso” nel senso di cantante che possiede la più grave tra le voci maschili, che tipicamente si estende dal Fa grave al Fa acuto (Fa1 – Fa3). Dmitri era cantante lirico, e in più ha tradotto in varie lingue gran parte delle opere del padre. In particolare ricordiamo, dal russo all’inglese, Invito a una decapitazione (di cui si è parlato qui).

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Dmitri e Vladimir Nabokov nel 1968.
E poi c’è Sergei, il fratello minore di Vladimir.

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I fratelli Nabokov.
Timido e malinconico, gravemente balbuziente, appassionato di musica, balletto e poesia, Sergei Vladimirovič Nabokov (1900 – 1945) condivide con il fratello l’infanzia agiata e pietroburghese, e la successiva emigrazione. Scriveva poesie. Si trovava nelle campagne nei dintorni di Parigi nella primavera del 1940, quando i tedeschi invadevano la Francia settentrionale e Vladimir, Vera e Dmitri era partiti per l’America.
Nel 1941 Sergei è arrestato dalla Gestapo con l’accusa di omosessualità (non contribuire alla riproduzione della razza ariana era un grave reato). Rilasciato dopo quattro mesi, viene di nuovo arrestato alla fine del 1943, e portato a Neuengamme, in un grande campo di concentramento vicino ad Amburgo dove diventa il prigioniero numero 28631. Le condizioni brutali lo portano alla morte nel gennaio 1945, pochi mesi prima della liberazione del campo da parte degli anglo-americani.

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Nel campo di Neuengamme.

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Mappa dei campi di concentramento nazisti. Quello di Neuengamme è in alto sulla sinistra.

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Monumento alla memoria delle vittime omosessuali nell’ex campo di Neuengamme.
Vladimir e Sergei, pare, non sono mai andati troppo d’accordo. Vladimir, poi, era profondamente omofobo. Strano, per un uomo così brillante, antirazzista e senza alcuna preclusione contro gli ebrei in un’epoca tanto antisemita. Il suo radicato pregiudizio antiomosessuale ha sempre reso tormentato il rapporto con il fratello, visto come un motivo di vergogna. Nati a meno di un anno di distanza, simili nell’aspetto, eppure agli antipodi per carattere e preferenze (ad esempio, Vladimir non sopportava la musica). Lev Grossman (nel saggio The gay Nabokov, pubblicato nel 2000) scrive che la passione di Vladimir per il tema del doppio, che ricorre nelle sue opere sotto forma di specchi, riflessi, gemelli e quant’altro, potrebbe derivare proprio dal fratello, che era il suo doppio e il suo contrario.