Hudson e il passaggio a nord-ovest

Henry Hudson era nato in Inghilterra attorno al 1570, e faceva l’esploratore. Intraprese vari viaggi con lo scopo di trovare un passaggio a nord-ovest che collegasse l’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico e che avrebbe permesso di navigare dall’Europa all’Asia attraverso il Mar Glaciale Artico.
Era dalla fine del Quattrocento che questa rotta veniva cercata senza successo, e Henry Hudson non fece eccezione.

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(Mappa da Mapswire, CC BY 4.0, modificata da Wellentheorie)

Nel 1609 Henry Hudson ottenne dei finanziamenti della Compagnia Olandese delle Indie Orientali e partì a bordo della Halve Maen (“Mezzaluna”) andando a esplorare la costa orientale del Nord America, tra cui le zone che attualmente chiamiamo Cape Cod, il Maine, le città di New York e Albany.

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Sì, esistono dei meme su Henry Hudson. (Da un tweet di Albany Archives).

L’anno successivo, finanziato stavolta dagli inglesi e a bordo della Discovery, raggiunse le coste dell’attuale Canada e navigò per uno stretto e una baia che presero i nomi di Stretto di Hudson e Baia di Hudson (Hudson Strait e Hudson Bay).

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I viaggi di Henry Hudson (il primo in rosso, il secondo in blu).

All’epoca non c’era Google Maps e, quando navigavi in uno stretto e entravi in una baia, non sapevi dove ti avrebbe portato: magari in Asia, magari bloccato tra i ghiacci.

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Su Twitter esistono almeno un paio di simpatici account a nome di Henry Hudson. (Fonte)

«A novembre la nave rimase intrappolata nei ghiacci nella Baia di James [un’insenatura della baia di Hudson], cosicché l’equipaggio sbarcò a terra per passare l’inverno. Quando il ghiaccio si sciolse nella primavera del 1611, Hudson avrebbe voluto continuare l’esplorazione, ma l’equipaggio voleva tornare a casa. Alla fine la crisi sfociò nell’ammutinamento dell’equipaggio nel luglio del 1611, e Hudson, suo figlio e altri uomini vennero abbandonati alla deriva in una piccola barca.» E qui Wikipedia conclude, lapidaria, così: «Non furono più visti».

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L’ironia su Twitter.

Dopo i fallimenti di Henry Hudson, si continuò a cercare il passaggio a nord-ovest.
Tra i primi a trovarlo ci fu il norvegese Roald Amundsen (1872 – 1928), il quale annovera tra i propri meriti anche aver ispirato il nome di battesimo di Roald Dahl (ne avevo parlato qui).
Nel 1903 Roald Amundsen partì per una spedizione: la sua nave, Gjøa, attraversò la Baia di Baffin (a nord della Baia di Hudson), arrivò lungo la costa dell’isola di Re William e rimase bloccata dai ghiacci per due anni, durante i quali Amundsen e il suo equipaggio girarono in slitta nei dintorni determinando la posizione del Polo Nord Magnetico e facendo amicizia con gli Inuit. Nel 1905 la Gjøa ripartì, rimase di nuovo bloccata nel ghiaccio, e alla fine arrivò allo stretto di Bering nel 1906.
Come si può intuire, le acque attorno al Polo Nord sono spesso ghiacciate. Ma negli ultimi anni, in conseguenza del riscaldamento globale, i ghiacci sono sempre meno ghiacciati e il passaggio a nord-ovest è percorribile anche da grandi navi commerciali.

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Le esplorazioni dell’artico. Quella di Amundsen in azzurro.

Northwest Passage (Passaggio a nord-ovest), oltre a essere un romanzo del 1937 dello scrittore statunitense Kenneth Roberts, è il titolo originale della serie Twin Peaks (1990-1991) di David Lynch e Mark Frost (della quale quest’anno è uscita la terza stagione, attesa per 25 anni) ed è il titolo di un episodio della serie Fringe (stagione 2, episodio 21) ricco di atmosfere alla Twin Peaks.

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Joshua Jackson (Peter Bishop) nel suddetto episodio di Fringe: il legno sulle pareti fa subito Twin Peaks.

Ma torniamo al 1609, quando Henry Hudson, inglese temporaneamente al servizio degli olandesi, esplora l’attuale Manhattan e risale, per un tratto, il fiume che in quel punto affluisce al mare: l’attuale fiume Hudson.
Queste esplorazioni pongono le basi per il primo vero e proprio insediamento in quella zona, che è olandese e risale al 1625: si chiama Nuova Amsterdam (Nieuw Amsterdam).
Quarant’anni dopo, in seguito a una guerra tra inglesi e olandesi, Nieuw Amsterdam diventa britannica e diventa New York, in onore del Duca di York e Albany, futuro Re Giacomo II Stuart (1633-1701), ultimo re cattolico d’Inghilterra, Scozia, e Irlanda (il suo successore, o succeditrice, fu la figlia Maria II, protestante).
Nel 1673, durante una nuova guerra anglo-olandese, gli olandesi occupano la città e si affrettano a cambiarne il nome, stavolta in New Orange (in onore di Guglielmo III d’Orange, il quale, peraltro, pochi anni dopo avrebbe sposato Maria II Stuart, la figlia di Giacomo II, che poi era sua cugina di primo grado). Un anno dopo, finita la guerra, New Orange torna britannica e torna a chiamarsi New York.

Vi ho fatto uno schemino perché il discorso è complesso:
Nieuw Amsterdam New York Duca di York e Albany Re Giacomo II Stuart Nieuw Orange Guglielmo III d’Orange Maria II Stuart
(L’albero genealogico degli Stuart, martoriato dalle modifiche di Wellentheorie, è di Wdcf da Wikipedia, CC BY-SA 3.0)

Proseguirei volentieri a disquisire del fiume Hudson e dei suoi ponti ma rischio di superare ogni limite di lunghezza imposto dalla decenza e dunque ci fermiamo.
Qui trovate un video istruttivo su Henry Hudson (da cui peraltro proviene l’immagine in evidenza di questo post).


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F is for Family e l’asciuga insalata

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F is for Family è una serie animata che trovate su Netflix, creata da Bill Burr e Michael Price (quest’ultimo ha scritto diversi episodi dei Simpson, mentre forse vi ricorderete di Bill Burr per il ruolo di Patrick Kuby in Breaking Bad).

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Huell Babineaux (Lavell Crawford) e Patrick Kuby (Bill Burr) in Breaking Bad.

Ambientata negli anni ’70, “a time when you could smack your kid, smoke inside, and bring a gun to the airport” (fonte), la serie narra dei Murphy, frustrata famiglia media americana.
Vediamo un po’ a chi appartengono alcune delle voci dei protagonisti:
Frank Murphy, il capofamiglia, è doppiato dal suo autore Bill Burr, mentre sua moglie Sue è Laura Dern, attrice che, tra le altre cose, ha fatto alcuni film di David Lynch (Velluto bluBlue Velvet, 1986, Cuore selvaggio – Wild at Heart, 1990, Inland Empire, 2006) e compare anche nella nuovissima stagione di Twin Peaks in un ruolo che non vi spoilero.

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Laura Dern nella terza stagione di Twin Peaks

Vic, il vicino di casa ricco, pieno di donne, e invidiatissimo, è doppiato da Sam Rockwell, un attore che ha fatto decine di film ma che noi ricorderemo soltanto per essere il protagonista di Moon, film di fantascienza del 2009 con la regia di Duncan Jones, che poi è il figlio di David Bowie (il cui vero nome era David Robert Jones).

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Vic, e Sam Rockwell con un gatto.
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Una scena del film Moon

Nel quarto episodio della seconda stagione, Sue ha una grande idea:

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L’asciuga insalata (salad spinner o salad tosser), infatti, non è sempre esistito. Nella realtà però non è stato inventato da Sue Murphy.
L’asciuga insalata moderno deriva da due brevetti dei francesi Jean Mantelet e Gilberte Fouineteau nei primi anni ’70 (anche se esistevano già meccanismi che sfruttavano la forza centrifuga in modo simile), e fu introdotto sul mercato statunitense nel 1974 dalla Mouli Manufacturing Co.
Il meccanismo della centrifuga si può attivare in vari modi, a seconda dei modelli: a manovella, tirando una corda, premendo un pulsante. Non lo sapevo, ma pare esistano anche gli asciuga insalata elettrici.

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Come si asciugava l’insalata PRIMA dell’asciuga insalata?

Ho trovato varie tecniche. Le più semplici utilizzano asciughini puliti oppure carta da cucina per tamponare le foglie lavate e assorbire l’acqua. Altri metodi sfruttano la forza centrifuga: c’è chi mette l’insalata in una borsa di plastica e la fa roteare, in modo che l’acqua si allontani dalle foglie e rimanga sul fondo della borsa. Un’ottima soluzione da appartamento. Se invece avete a disposizione un luogo all’aperto (o non vi disturba avere la casa bagnata), potete infilare l’insalata in una federa pulita, oppure avvolgerla in telo e farne un fagotto, e rotearla in giro, in modo che l’acqua esca attraverso il tessuto (quest’ultimo metodo ci è stato segnalato dal mio papà e da Ammennicoli). I miei genitori raccontano che un tempo esistevano dei cestini metallici, forati, attaccati a una catenella: ci si metteva dentro l’insalata e si andava “nell’aia” per scuoterli o roteali in modo da far uscire l’acqua (possedere un’aia, possibilmente con le galline, sembra un requisito fondamentale). Gaberricci, invece, utilizza uno scolapasta (e ci chiediamo come quest’ultimo viva la contraddizione tra il proprio nome e il proprio utilizzo).
Su YouTube ci sono alcuni tutorial:

Ma apriamoci alle avanguardie tecnologiche offerte da WordPress e inauguriamo senza indugi l’appunto de

I Grandi Sondaggi di Wellentheorie


Comunicazione di servizio: Wellentheorie ha finalmente (?) aperto un profilo Instagram ufficiale. Seguitelo per restare sempre aggiornarti sull’immaginario visivo di questo blog!

#106 fredric brown

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Spoiler alert!!

Questo post parla del racconto pubblicato per intero nel post precedente: se non lo avete letto, non andate oltre altrimenti vi rovinate irrimediabilmente il finale…

Sentinella (Sentry) è un racconto breve scritto da Fredric Brown nel 1954. Molto breve: poco più di 300 parole. Un piccolo capolavoro di fantascienza che è apparso in numerose antologie, tra cui Le meraviglie del possibile (1959) curata da Sergio Solmi e Carlo Fruttero.

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Una foto scattata durante la guerra di Corea da David Douglas Duncan, che non c’entra niente, ma l’ho scelta perché risale più o meno all’epoca in cui fu scritto il racconto e ne richiama (vagamente) l’atmosfera.

La narrazione, in terza persona, assume il punto di vista del protagonista, ne descrive i pensieri e le sensazioni, e riferisce pochi fatti del passato dandoci solo una parte del contesto della vicenda. Questi pensieri e sensazioni ci appaiono del tutto condivisibili; inoltre, il protagonista è presentato come qualcuno che ha subìto una grave ingiustizia da parte di una “altra razza”, aliena, incivile, belligerante, che viene descritta come “il nemico” e “crudeli, schifosi, ripugnanti mostri”. Di conseguenza, ci viene naturale identificarci col protagonista: condividere il suo punto di vista, parteggiare per lui e per il suo popolo, contro quell’orribile nemico. Di conseguenza, ci viene naturale pensare al protagonista come uno di noi: un terrestre, un umano.
È l’ultima riga che capovolge tutto, che inaspettatamente ci costringe a riconsiderare l’intera storia, a mettere in discussione i nostri pregiudizi e la nostra visione di noi stessi. L’umano non è il buono, non è il coraggioso soldato che difende il suo popolo dagli aggressori, ma è il nemico ripugnante, feroce e sleale.

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La lotta “Uomo Vs. Mostro Alieno” sulla copertina di un numero di Worlds Unknown del 1973, contenente in realtà un altro racconto di Brown,  Arena.

La sentinella (in originale però The Sentinel) è anche un racconto di Arthur C. Clarke del 1948, che lo stesso autore ha poi ampliato ed elaborato nel romanzo 2001: Odissea nello spazio del 1968, dal quale è tratto l’omonimo film di Stanley Kubrick.
(Sentinel e Sentry sono pressoché sinonimi).

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Fredric Brown

Fredric Brown (1906 – 1972), americano, era basso di statura, rimase orfano molto giovane, amava giocare a scacchi e suonare il flauto. Nel corso della sua vita fa numerosi lavori di tutti i tipi, tra cui il fattorino, l’inserviente in un luna park e il correttore di bozze. Soffriva di asma bronchiale. Nel 1929 si sposa con Helen, dalla quale ha due figli. Più avanti divorzia, risposandosi nel 1948 con Elizabeth Charlier. Nel frattempo pubblica poesie, articoli, e soprattutto riesce a vendere a varie riviste una grande quantità di racconti polizieschi, fantastici, di mistero e di fantascienza. Scrive anche romanzi, ma si specializza nel racconto breve e brevissimo. Scrive soprattutto per intrattenere e per sbarcare il lunario, ma ha grande inventiva, senso dell’umorismo, gusto per il paradosso, idee innovative, sa creare ingegnosi intrecci e sa raccontarli con una prosa arguta, rapida ed efficace. Guadagna poco durante la sua carriera di scrittore, e non è tenuto in grande considerazione dalla critica.

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Fredric Brown

Scrittore estremamente prolifico (qui una bibliografia), è apprezzato da numerosi altri autori di fantascienza e non, tra cui Philip K. Dick, Robert Bloch, autore di Psycho, e Robert A. Heinlein, che gli ha dedicato il romanzo Straniero in terra straniera (Stranger in a Strange Land). I suoi scritti hanno anche ispirato film: ad esempio da uno dei suoi romanzi polizieschi più celebri, La statua che urla (The Screaming Mimi) sono stati tratti l’omonimo film del 1958 con Anita Ekberg e, nel 1970, L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento. Sul già menzionato racconto di fantascienza Arena, del 1944, è basato l’omonimo episodio di Star Trek (The Original Series) del 1967. Purtroppo le sue opere (e specialmente i racconti di fantascienza) non sono facilissime da trovare (la Feltrinelli, Amazon, e la mia biblioteca comunale non ne sono particolarmente forniti).

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Una scena di Arena, episodio 18 della prima stagione della serie originale di Star Trek (su Netflix è il 19, perché c’è anche l’episodio pilota che in origine venne scartato e mai trasmesso).

Non c’entra niente, ma Brown mi ha fatto venire in mente Kilgore Trout, lo sconosciuto e squattrinato scrittore di fantascienza che ricorre in vari romanzi di Kurt Vonnegut. In realtà il personaggio di Kilgore Trout è ispirato a un altro scrittore, amico di Vonnegut: Theodore Sturgeon, nome di penna di Edward Hamilton Waldo (1918 – 1985). Infatti Kilgore richiama il suono di Theodore, e Trout (trota) fa il parallelo a Sturgeon (storione). Vonnegut ha rivelato la sua fonte di ispirazione soltanto dopo la morte dell’amico, tanto che fino ad allora si era per lo più pensato che Kilgore Trout fosse un alter ego dello stesso Vonnegut.

#104 andrés escobar

Il 21 maggio 1904, a Parigi, viene fondata la Fédération Internationale de Football Association, meglio conosciuta come FIFA. Nel 1930 a Montevideo, capitale dell’Uruguay, si svolge il primo Campionato mondiale di calcio (o Coppa del Mondo), la manifestazione più importante organizzata dalla federazione. Da allora il campionato si disputa ogni quattro anni (ad eccezione del 1942 e 1946 a causa della Seconda guerra mondiale).

uruguay

Estate 1994. Il quindicesimo campionato mondiale si tiene negli Stati Uniti. La nazionale ospitante viene sconfitta agli ottavi di finale dal Brasile, il quale invece prosegue trionfante fino alla finalissima.
Nel frattempo anche l’Italia è arrivata trionfante fino alla finalissima, e affronta il Brasile domenica 17 luglio 1994 al Rose Bowl, stadio di Pasadena utilizzato anche per partite di football americano e occasionalmente per concerti, ad esempio di Depeche Mode, Cure, Michael Jackson, Pink Floyd, Rolling Stones, U2. Hanno suonato lì anche i Guns N’ Roses e i Metallica durante il tour che hanno fatto insieme nel 1992 negli stadi di USA e Canada. Cambiando genere, il prossimo ottobre ci suoneranno i Coldplay.

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Il Rose Bowl.

Ma non divaghiamo.
Brasile-Italia. È il 17 luglio 1994, a Pasadena, e fa caldissimo.
Entrambe le nazioni hanno già vinto tre coppe del mondo, e le due squadre sono in equilibrio, tanto che il risultato si mantiene sullo zero a zero per i tempi regolamentari e i supplementari. Si va ai rigori.
Dopo il quarto rigore il Brasile si trova in vantaggio per tre a due. Tocca all’Italia: Roberto Baggio, col suo celebre codino, tira alto e sbaglia.

Per la prima volta la vittoria del campionato mondiale viene assegnata ai rigori. Per la prima volta una nazione raggiunge la quarta coppa del mondo, e non è l’Italia.

L’Italia vince poi il suo quarto mondiale nel 2006, in Germania, ed è la seconda volta nella storia della coppa del mondo in cui il risultato viene deciso ai rigori (è la partita che tutti noi ignoranti di calcio ricordiamo esclusivamente per la testata di Zidane a Materazzi). Nel frattempo però il Brasile aveva vinto il suo quinto mondiale nell’edizione precedente, e quindi niente, rimane un passo avanti.

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Ma torniamo a quel campionato del 1994.
Come ho recentemente appreso, il campionato ha una lunga fase preliminare, le qualificazioni, in cui vengono selezionate le squadre che si giocheranno la coppa del mondo nella fase finale, che è a sua volta composta dalla prima fase dei gironi e dalla seconda fase a eliminazione diretta.
Ai gironi di quel campionato del 1994 tra le squadre che sembravano promettenti c’era la Colombia. E invece inizia malissimo, perdendo con la Romania. La partita successiva la gioca il 22 giugno contro i padroni di casa, nello stesso Rose Bowl di Pasadena dove si giocherà la finale.
Al 34’ del primo tempo lo statunitense John Harkes tira, il portiere colombiano avanza per intervenire, arriva Andrés Escobar in scivolata e, accidentalmente, fa finire il pallone in rete. Nella sua rete. Autogol. Più avanti ognuna delle due squadre segna un gol, ma l’autorete di Escobar determina la vittoria degli Stati Uniti, e la Colombia se ne torna inaspettatamente a casa senza arrivare neanche agli ottavi di finale.

Andrés Escobar Saldarriaga, ventisettenne, era difensore del Nacional di Medellín e della Nazionale colombiana. Più precisamente, era il terzino destro e giocava con la maglia numero 2. Scopro ora che il terzino, nel calcio, è un difensore laterale (per la rubrica “I misteri del lessico calcistico”). Lo chiamavano “El Caballero del Fútbol”. Nato e morto a Medellín. Era fidanzato da cinque anni con la dentista Pamela Cascardo, coi cui avrebbe dovuto sposarsi pochi mesi dopo.

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Alle tre di mattina del 2 luglio 1994, pochi giorni dopo il rientro il patria, Andrés Escobar viene assassinato con sei colpi di pistola nel parcheggio di un bar di Medellín (altre fonti parlano di dodici colpi di mitragliatrice). Gli spari esplodono, pare, dopo una violenta discussione tra il calciatore e alcuni uomini che lo incolpano dell’eliminazione della Colombia dal mondiale. L’esecutore, Humberto Muñoz Castro, viene arrestato la sera successiva e confessa. Doveva essere parecchio amareggiato per l’autogol.

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Humberto Muñoz Castro

Ma c’è da dire che Muñoz lavorava per Pedro David e Juan Santiago Gallón Henao, “imprenditori” del narcotraffico. In tanti sostengono che l’omicidio sia in realtà legato al giro di scommesse clandestine in cui erano coinvolti i vari cartelli della droga colombiani, estremamente potenti e alquanto spregiudicati in fatto di omicidi. I fratelli Gallón Henao avevano forse scommesso sulla qualificazione agli ottavi della Colombia e subìto grandi perdite a causa dell’autogol di Escobar. Comunque, Humberto Muñoz Castro viene inizialmente condannato a 43 anni di carcere e poi rimesso in libertà nel 2005 dopo 11 anni. I Gallón Henao ricevono una condanna di quindici mesi ed escono dopo poche settimane.

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Escobar è un cognome parecchio diffuso in Colombia, e il calciatore Andrés lo condivide col celebre narcotrafficante Pablo (Pablo Emilio Escobar Gaviria), pur non essendo imparentati neanche alla lontana. Re della cocaina, criminale più ricco della storia, mandante di un’assurda moltitudine di omicidi, protagonista della serie tv Netflix Narcos, Pablo Escobar è morto sette mesi prima di Andrés Escobar, e si dice che se il narcotrafficante fosse stato ancora vivo, il calciatore non sarebbe mai stato ucciso. Perché Pablo Escobar era un grande tifoso dell’Atletico Nacional di Medellin in cui giocava Andrés Escobar, e lo aveva finanziato con ingenti donazioni di denaro ed equipaggiamenti. Sosteneva anche altre squadre locali, e fece costruire stadi. Era una strategia perfetta per ottenere consenso popolare e riciclare colossali quantità di denaro.

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Pablo Escobar

Nonostante sia stato uno dei criminali più sanguinari di sempre, Pablo Escobar era venerato da una buona parte del popolo colombiano. Anche perché la percezione comune era che il suo unico crimine fosse vendere cocaina agli americani, i gringos già di per sé non molto amati in Sudamerica, che peraltro chiedevano e pagavano quella droga. In questo senso Pablo Escobar appariva come un commerciante onesto, che dava lavoro a tanta povera gente in Colombia e che inoltre si impegnava altruisticamente in beneficienza. Le brutali uccisioni di criminali rivali, poliziotti e politici onesti, e di innumerevoli innocenti, tendevano a passare inosservate ai colombiani così come ai consumatori di coca americani. Tutto questo è descritto molto bene nella già nominata serie tv Narcos e in documentari come Los Tiempos de Pablo Escobar (entrambi disponibili su Netflix).

 

#100 battlestar galactica (terza parte)

Dopo due lunghi post su Battlestar Galactica (questo e questo) mi sono accorta che, a distanza di quasi un anno, ho ancora un paio di cose da dire in proposito.

Katee Sackhoff, l’attrice che interpreta Kara “Starbuck” Thrace nella serie nuova di Battlestar Galactica (2004-2009), è apparsa in due episodi di Big Bang Theory, interpretando se stessa. Katee Sackhoff compare infatti nelle fantasie masturbatorie di Howard Wolowitz.

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La prima apparizione è nell’episodio La formula della vendetta / The Vengeance Formulation (S03 E09), del 2009: Howard si immagina Katee in una situazione romantica (vasca da bagno, luce soffusa, bicchieri di vino), e si scambiano il seguente dialogo, spassosissimo e contenente i soliti riferimenti nerd (Cylon e coloni sono le due fazioni contrapposte in Battlestar Galactica, e la principessa Leia, Leila nella versione italiana, è ovviamente quella di Star Wars – lo dico per i non-nerd là fuori).

Howard: So nice you could join me this evening. You’re looking lovely as always.
Katee Sackhoff: Thanks, Howard. Always nice to be part of your masturbatory fantasies.
Howard: Come on, Katee, don’t make it sound so cheap.
Katee: I’m sorry, fiddling with yourself in the bathtub is a real class act.
Howard: Thank you. So, shall we get started?
Katee: Sure. But can I ask you a question first?
Howard: You want to play Cylon and colonist?
Katee: No. I want to know why you’re playing make-believe with me when you could be out with a real woman tonight.
Howard: You mean, Bernadette?
Katee: No, I mean Princess Leia. Of course I mean Bernadette. She’s a wonderful girl and she really likes you.
Howard: I know, but she’s not you.
Katee: I’m not me. The real me is in Beverly Hills going out with a tall, handsome, rich guy […].

La seconda apparizione è nell’episodio La deviazione del troll virtuale / The Hot Troll Deviation (S04 E04), del 2010: Howard predispone la giusta atmosfera nella sua stanza e dà inizio alla tipica fantasia, ma questa volta Katee indossa l’uniforme da pilota di Viper di Battlestar Galactica. La fantasia degenera presto e si aggiungono prima Bernadette e poi George Takei.

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George Takei, Katee Sackhoff, Howard e Bernadette.

George Takei (nato nel 1937) è un attore famoso per il ruolo di Hikaru Sulu, timoniere dell’Enterprise nella serie classica di Star Trek e nei primi sei film (Sulu è interpretato da John Cho nei due film diretti da J.J. Abrams, Star Trek del 2009 e Star Trek Into Darkness del 2013).

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Hikaru Sulu

George Takei è dichiaratamente gay (nel 2008, dopo una relazione di oltre ventun’anni, ha sposato il compagno Brad Altman con rito buddhista) e si impegna come attivista per i diritti gay.

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George Takei

Quando George Takei compare nella fantasia di Howard Wolowitz, Katee chiede a quest’ultimo se ha tendenze omosessuali latenti. A quel punto George e Katee si mettono a discutere tra loro sulla difficoltà di recitare in generi diversi dalla fantascienza, essendo entrambi diventati due icone nei loro ruoli più celebri. Più avanti, al primo appuntamento con Bernadette, Katee e George fungono da “amici immaginari” che “aiutano” Howard.

La quarta stagione di Battlestar Galactica è stata prodotta e poi trasmessa divisa in due parti, separate da sette mesi di pausa, a causa dello sciopero degli sceneggiatori (WGA strike) del 2007-2008.
Lo sciopero è durato per 100 giorni, dal novembre 2007 al febbraio 2008, e ha avuto effetti significativi sul mondo televisivo americano: molte serie non hanno potuto completare la stagione come era stata prevista, ad esempio la prima stagione di Big Bang Theory ha solo 17 episodi (8 erano stati prodotti prima dello sciopero, e 9 sono stati recuperati dopo) mentre tutte le altre sue stagioni ne hanno 23 o 24. Della prima stagione di Breaking Bad sono stati prodotti solo 7 dei 9 episodi previsti, e qualcosa di simile è successo per Grey’s Anatomy (stagione 4), tutti i CSI, e un sacco di altre serie.

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Una scena di Sometimes a Great Notion, tanto per farvi capire il mood dell’episodio.

Senza la certezza che Battlestar Galactica sarebbe continuata, l’episodio Sometimes a Great Notion è stato pensato come un potenziale finale. Concluso lo sciopero, il canale Sci-Fi ha deciso di produrre altri dieci episodi fino al finale inizialmente programmato.
Sometimes a Great Notion (l’episodio 11 o 13 della quarta stagione: dipende se si considera Razor come doppio episodio di inizio stagione oppure come film separato dalla serie) è un episodio molto triste. Per mettere il cast nell’umore giusto, pare che Edward James Olmos dicesse a tutti che la serie sarebbe sicuramente stata cancellata e che quella era la fine.
Il titolo è un riferimento al secondo romanzo, pubblicato nel 1964, di Ken Kesey (1935-2001), scrittore statunitense noto soprattutto per Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest, 1962).
Sometimes a Great Notion credo che non sia stato tradotto in italiano, ma è arrivato anche in Italia il suo adattamento cinematografico, Sfida senza paura (Sometimes a Great Notion, 1971), con Paul Newman e Henry Fonda.

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Ken Kesey

Il titolo del romanzo, a sua volta, viene da Goodnight, Irene, canzone popolare americana, registrata per la prima volta da Lead Belly. Il testo parla di un amore tormentato, della tristezza e delle fantasie suicide dell’autore: Sometimes I live in the country / Sometimes I live in town / Sometimes I have a great notion / To jump into the river and drown. (“Notion” in inglese può significare, come “nozione” in italiano, conoscenza, cognizione o credenza su qualcosa, ma anche impulso e desiderio).

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Lead Belly

Avevo parlato qui, a proposito di Helo in Battlestar Galactica, dell’archetipo del “red-shirt character”. Mi autocito: «uno di quei personaggi che muoiono subito dopo la loro prima apparizione, e vengono introdotti con lo scopo di aggiungere dramma e mostrare quanto una determinata situazione sia pericolosa, senza però uccidere altri personaggi che hanno ruoli più importanti (gli spettatori devono capire che i protagonisti stanno rischiando la vita). La definizione “red-shirt character” deriva dalla serie classica di Star Trek (1966–69), in cui “the red-shirted security personnel frequently die during episodes” (lo dice Wikipedia).»

Se non sapete questa cosa, non potete cogliere citazioni e riferimenti, come in un episodio di South Park (Ai confini della realtà / City on the Edge of Forever, S02 E07) in cui lo scuolabus finisce fuori strada e rimane bloccato sull’orlo di un precipizio. Un ragazzino mai visto prima, vestito con la divisa rossa di Star Trek, esce per cercare aiuto, e viene divorato da un mostro.

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E poi non potreste capire battute e fumetti come questo, di Lunarbaboon:

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Tra l’altro, oggettivamente, anche Dylan Dog indossa una red shirt.

#98 l’invenzione di morel

È il febbraio 2008. Sulla ABC va in onda il quarto episodio della quarta stagione di Lost, Eggtown (Pessimi affari in italiano). In alcune scene Sawyer, che oltre a fare il bello e dannato sembra anche un buon lettore, sta leggendo L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares (tra l’altro, nello stesso episodio si vede John Locke prendere da uno scaffale VALIS, romanzo di fantascienza di Philip K. Dick).

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Potrebbe non essere la prima cosa che salta agli occhi in questa immagine, ma sì, il libro è L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares.

Adolfo Bioy Casares (1914 – 1999) era uno scrittore, traduttore e giornalista argentino. (Sì, si chiama Adolfo: a sua discolpa, al momento della sua nascita nel 1914, Adolf Hitler aveva 25 anni, stava appena cominciando ad avvicinarsi all’antisemitismo e non aveva ancora fatto grosse cazzate).

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Adolfo Bioy Casares

Autore di fantascienza e fantastico, Adolfo Bioy Casares era un grande amico di Jorge Luis Borges, con il quale scrisse numerose storie, spesso pubblicate con lo pseudonimo Honorio Bustos Domecq, come la raccolta di racconti gialli Sei problemi per don Isidro Parodi (1942).

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Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares

Jorge Luis Borges (1899 – 1986), “scrittore, poeta, saggista, traduttore e accademico argentino”, “ritenuto uno dei più importanti e influenti scrittori del XX secolo”, è autore di “racconti fantastici, in cui ha saputo coniugare idee filosofiche e metafisiche con i classici temi del fantastico (quali: il doppio, le realtà parallele del sogno, i libri misteriosi e magici, gli slittamenti temporali)”.

Jorge Luis Borges
Jorge Luis Borges, con un gatto.

Affetto da retinite pigmentosa, malattia genetica dell’occhio ereditata dal padre, Borges subì un calo della vista a partire dagli anni ’40 fino a diventare completamente cieco alla fine degli anni ’60. Lo aiutò nella stesura di alcune delle ultime opere María Kodama-Schweizer.
María Kodama-Schweizer è un personaggio interessante: nata a Buenos Aires nel 1937 (e dunque di trentotto anni più giovane di Borges) da padre giapponese, architetto, e madre tedesca, studiò insieme a Borges letteratura medievale islandese (ripeto: letteratura medievale islandese). Scrittrice e traduttrice, sposò Borges nel 1986, circa due mesi prima della morte di lui per un cancro al fegato.

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María Kodama e Jorge Luis Borges

Ma torniamo ad Adolfo Bioy Casares, il quale sposò, invece, la poetessa e scrittrice argentina Silvina Ocampo (1903 – 1994) nel 1940 (lui aveva ventisei anni e lei trentasette). La più giovane di sei figli, sorella minore dell’editrice e scrittrice Victoria Ocampo, Silvina aveva studiato disegno a Parigi con Giorgio de Chirico.

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Silvina Ocampo e Adolfo Bioy Casares

Victoria Ocampo (1890 – 1979), importante editrice, fu “una nota oppositrice del governo nazionalista e populista di Juan Perón” e per la sua opposizione venne anche arrestata nel 1953.

Il generale Juan Domingo Perón (1895-1974) è stato presidente dell’Argentina dal 1946 al 1955. “I seguaci di Perón […] acclamavano i suoi sforzi per eliminare la povertà e dare maggiore dignità al lavoro, mentre i suoi oppositori politici […] lo hanno considerato un demagogo e un dittatore”.
Perón costruì la sua immagine anche grazie all’aiuto della seconda moglie, Evita Perón.

María Eva Duarte de Perón (1919-1952), meglio conosciuta con il diminutivo Evita, “è stata un’attrice, politica, sindacalista e filantropa argentina”. Morta a causa di un tumore a soli 33 anni, il suo cadavere fu mummificato ed esposto per alcuni anni, poi sequestrato, sepolto sotto falso nome in Italia, e infine riportato in Argentina.

Il musical Evita, scritto da Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, si ispira alla vita di Evita Perón. La canzone più nota è Don’t Cry for Me, Argentina, che viene cantata dal personaggio di Evita il giorno dell’elezione a presidente del marito. A Evita dedicò una canzone anche il Quartetto Cetra, dal titolo A pranzo con Evita.

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Evita con il marito Juan Domingo Perón

Tornando ad Adolfo Bioy Casares, lo scrittore è sepolto nel cimitero della Recoleta di Buenos Aires. È il più famoso cimitero storico argentino e prende il nome dal quartiere in cui è situato, la Recoleta, dove tra l’altro ha sede la Biblioteca nazionale della Repubblica Argentina.
“Al principio del XVIII secolo, i frati missionari dell’Ordine degli agostiniani recolletti scalzi arrivarono nella zona, allora nei dintorni di Buenos Aires, costruendo sul luogo un convento e una chiesa. La chiesa, Nostra Signora del Pilar, terminata nel 1732, esiste ancora ed è stata dichiarata monumento nazionale. Gli abitanti del luogo presero l’abitudine di chiamare la chiesa «la Recoleta», dal nome dei frati che la gestivano (recoletos escalzos in spagnolo). Il nome si estese poi al quartiere e infine al cimitero. L’ordine fu disciolto nel 1822 e il terreno del convento passò allo Stato che decise di creare il primo cimitero pubblico della città di Buenos Aires.”

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Il cimitero della Recoleta, visto dal tetto di un edificio adiacente.

 

Ma non divaghiamo ancora e torniamo ad Adolfo Bioy Casares, e al più noto dei suoi lavori, il romanzo L’invenzione di Morel (La invención de Morel), pubblicato nel 1940, che mescola fantascienza, fantastico e terrore.
Il libro venne originariamente pubblicato con due diverse copertine, entrambe disegnate da Norah Borges (il cui vero nome sarebbe Leonor Fanny Borges Acevedo, 1901-1998), artista e sorella di Jorge Luis Borges.

Il romanzo è una sorta di diario di uno scrittore venezuelano condannato all’ergastolo. Ignoriamo il suo nome e il motivo della condanna, ma ci racconta di essere fuggito, per scappare dalle accuse, su una piccola e misteriosa isola da qualche parte nella Polinesia. Si dice che coloro che in precedenza hanno tentato di abitare l’isola siano stati contagiati e infine uccisi da una strana malattia, ma il nostro fuggitivo è disposto a correre il rischio, e vi arriva a bordo di una barca che si arena poi nelle paludi.

La barca è ormai irraggiungibile, sulla spiaggia orientale. Non è molto quel che perdo: so di non essere in prigione, e che posso andarmene dall’isola; ma quando mai ho avuto la possibilità di andarmene? So quale inferno racchiude quella barca. Sono venuto da Rabaul fin qui. Non avevo acqua da bere, nemmeno un cappello. Remando, il mare è inesauribile. L’insolazione, la stanchezza erano più grandi del mio corpo. Ero afflitto da una ardente malattia e da sogni che non si stancavano mai.

 

(Dove sono questi luoghi? Ne parlerò un’altra volta perché questo post sta diventando troppo lungo.)

Le analogie con la serie Lost sono evidenti: l’atmosfera di mistero e inspiegabilità; un’isola polinesiana “deserta”; gli incontri con misteriosi e inquietanti abitanti dell’isola; in Lost, i sopravvissuti del disastro aereo sono in buona parte in fuga da qualcosa, e alcuni di loro hanno commesso crimini in passato; Danielle Rousseau parla di una misteriosa malattia che avrebbe contagiato i suoi compagni di viaggio, Desmond Hume e Kelvin Inman se ne stanno in quarantena nella Swan station perché uscire all’aperto li esporrebbe al contagio di una misteriosa malattia; come il protagonista del libro, i protagonisti della serie scoprono man mano strane e misteriose costruzioni, spesso in stato di abbandono; …

Per capire ulteriori affinità, provate a leggere questo brano, in cui la voce narrante cerca spiegazioni per le stranezze dell’isola e degli incontri con “gli intrusi”:

Provai diverse spiegazioni: Che io abbia la famosa peste; i suoi effetti sull’immaginazione […]
Che l’aria perversa dei bassi e una deficiente alimentazione mi abbiano reso invisibile. […]
Mi venne l’idea (precaria) che potesse trattarsi di esseri di diversa natura, di un altro pianeta, con occhi che non servono a vedere, con orecchie che non servono a sentire. […]
La notte scorsa sognai questo:
Ero in un manicomio. Dopo una lunga visita (il processo?) del medico, la mia famiglia mi aveva portato lì. Morel era il direttore. A tratti, sapevo di essere nell’isola; a tratti, credevo di essere nel manicomio; a tratti, ero il direttore del manicomio. […]
Quinta ipotesi: gli intrusi sarebbero un gruppo di morti amici; io, un viaggiatore, come Dante o Swedenborg, oppure un altro morto, di una altra casta, in un momento diverso della sua metamorfosi; quest’isola, purgatorio oppure cielo di quei morti […]
In quest’isola poteva essere successa una catastrofe non percettibile per i suoi morti (io e gli animali che la abitavano); poi erano arrivati gli intrusi.
Che io fossi morto! Come mi entusiasmò quest’idea (vanitosamente, letterariamente)!

Inoltre, la trama dell’episodio Dave (stagione 2, episodio 18) ricorda la teoria quattro, quella del manicomio: (spoiler!) Hugo, sull’isola, pensa di trovarsi ancora in un ospedale psichiatrico e sospetta che l’isola sia soltanto un sogno.

Concludo con una citazione dal libro che ho particolarmente apprezzato:

Forse tutta quest’igiene di non sperare è un po’ ridicola. Non sperare dalla vita, per non rischiarla; considerarsi morto, per non morire. A un tratto tutto questo mi è sembrato un letargo spaventoso, allarmante; voglio che finisca.

Love #2 – Play the game

La serie di post sulla serie tv Love continua: dopo aver spulciato il primo episodio qui e qui, Marco ed io ci siamo dedicati al secondo. Il post lo trovate QUI su M for Maverick, e si parla, tra le altre cose, di John Candy, di Sioux Falls, del suicidio di Peg Entwistle, e persino di verbi e sostantivi.

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Ne approfitto per annunciare che ho aggiunto una pagina per districarsi tra le tante rubriche qua su Wellentherie, così non perdiamo i fili dei tanti discorsi cominciati.

#97 cometa di halley

Nell’ultima parte del primo episodio di Love, di cui si è parlato negli ultimi due post (prima e seconda parte), Gus indossa una maglietta con la scritta “Official Comet Watcher – Halley’s Comet – Dec 15, 1985 – Apr 1, 1986”. Se vi piace, potete comprarla su Amazon.
La suddetta maglietta ha inoltre il merito di avermi fatto scoprire un sito, di cui ignoravo l’esistenza ma di cui sentivo da tempo la necessità, chiamato T-Shirts On Screen: cataloga screenshot di film e serie tv in cui i personaggi indossano magliette. È anche su Twitter. Meraviglioso.

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Gus con la maglietta della cometa.

Ma diciamo due parole sulla cometa di Halley. Da Wikipedia: «La Cometa di Halley, il cui nome ufficiale è 1P/Halley, è la più famosa e brillante delle comete periodiche provenienti dalla Fascia di Kuiper, le quali passano per le regioni interne del sistema solare ad intervalli di decine di anni».
Le comete sono piccoli corpi celesti composti prevalentemente da ghiaccio. Quelle periodiche sono comete che, percorrendo la loro orbita, arrivano in prossimità del nostro pianeta regolarmente ogni qualche decina o centinaia di anni. Il periodo orbitale della cometa di Halley è di circa 75 anni, perciò ogni circa 75 anni la cometa risulta visibile dalla Terra. È stata visibile l’ultima volta nel 1986 (l’anno commemorato nella maglietta di Gus) e si prevede che tornerà visibile nel 2061.

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L’orbita della cometa di Halley rispetto al sistema solare.

Numerosi testi antichi contengono testimonianze che potrebbero riguardare la cometa di Halley: la prima osservazione sembra in un testo cinese del 239 a. C. Più avanti, si trovano riferimenti in documenti babilonesi e anche nel Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo. Ci sono anche testimonianze visive: la cometa di Halley appare nell’arazzo di Bayeux (Bayeux Tapestry), un tessuto ricamato che racconta per immagini la conquista normanna dell’Inghilterra del 1066. Un’altra apparizione nel 1301 ha probabilmente ispirato Giotto a dipingere la stella di Betlemme come una cometa nell’Adorazione dei Magi, un affresco del 1303-1305 nella Cappella degli Scrovegni a Padova. La stella di Betlemme è quella che avrebbe guidato i Magi ad arrivare da Gesù appena nato: il testo del Vangelo è ambiguo e controverso, ma parla di stella e non di cometa (e infatti, nelle rappresentazioni precedenti a Giotto, ci sono stelle e non comete). Eppure, la definizione comune è “stella cometa”, che è una gran confusione, perché le stelle non sono comete, e le comete non sono stelle. In inglese, invece, la chiamano “Christmas Star” e non si pongono il problema.

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L’Adorazione dei Magi di Giotto (la cometa è sopra il tetto della capanna)

Tra l’altro, i tre re Magi: nel testo biblico, non si dice che fosse re, né che fossero tre, né come si chiamassero. Questi dettagli (compresi i nomi  Melchiorre, Baldassarre e Gaspare) sono stati aggiunti dalla successiva tradizione cristiana. E poi, prima di arrivare da Gesù, i Magi passano dal re Erode e gli parlano della stella e della nascita del messia, ed Erode non ne è entusiasta, tanto che fa uccidere tutti i bambini sotto ai due anni di età a Betlemme.

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Il passo del vangelo di Matteo che descrive l’arrivo dei magi, in diverse traduzioni (da LaParola.net – grazie a Matteo, un omonimo dell’evangelista).

Secondo alcune interpretazioni, come quella adottata dai Testimoni di Geova, la stella era un segnale mandato non da dio bensì dal diavolo, per far sapere a Erode della nascita di Gesù e mettere quindi quest’ultimo in pericolo. In più, i magi sono astrologi, e pagani, e la Bibbia non parla benissimo dell’astrologia (sarebbe “detestabile” a dio).

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I Re Magi in un dipinto di Henry Siddons Mowbray.

Ma torniamo alla cometa di Halley: gli astronomi avevano sempre interpretato ogni sua apparizione come un evento isolato. Edmond Halley (1656 – 1742) fu il primo ad accorgersi che la cometa apparsa nel 1682 aveva caratteristiche simili a quelle descritte da altri astronomi del passato, e concluse che si trattava in realtà dello stesso oggetto che tornava visibile ogni 76 anni. Calcolò quindi che la cometa sarebbe tornata tra il 1758 e il 1759. Purtroppo morì prima di vedere confermata la propria previsione, ma aveva ragione, e così la cometa fu chiamata col suo nome.

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Edmond Halley

Edmond Halley è un tizio fighissimo che, secondo Wikipedia, «è stato un astronomo, matematico, fisico, climatologo, geofisico e meteorologo inglese». Si è occupato anche di demografia e ha una laurea ad honorem in legge. «L’interesse di Halley per la scienza greca ne fece anche un filologo ed editore di antichi trattati». Praticamente ha studiato di tutto, fatto e scoperto mille cose.
Fun fact atronomico-letterario: Mark Twain è nato con l’apparizione della cometa di Halley nel 1835, ed è morto durante l’apparizione successiva, nel 1910. Quella del 1910 è stata anche la prima volta in cui la cometa di Halley ha potuto essere fotografata.

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All’arrivo della cometa nel 1985-86 sono state lanciate parecchie sonde per studiarla da vicino, tra cui la sonda Giotto, lanciata dall’Agenzia Spaziale Europea, che prende il nome dal pittore che la ritrasse in un suo affresco.

Anche se per rivedere la cometa di Halley dovremo aspettare un bel po’, tutti gli anni ne possiamo vedere i rimasugli: lo sciame meteorico delle Eta Aquaridi, che si ripete ogni anno dal 19 aprile al 28 maggio, e quello delle Orionidi, dal 2 ottobre al 7 novembre, avvengono «quando la Terra, nel suo moto orbitale intorno al Sole, attraversa l’orbita di una cometa che ha lasciato una scia di detriti» (Wikipedia). I detriti, o meteore, entrando in contatto con l’atmosfera terrestre bruciano e lasciano scie luminose, ovvero le stelle cadenti. Gli sciami prendono il nome non dalla cometa da cui sono originati ma dalla posizione nel cielo da cui le stelle cadenti sembrano arrivare.

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